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Una breve storia delle partecipazioni ceche alle grandi fiere universali e di quando lo stile praghese sorprese il mondo

Una grande parata di artisti, che incuriosivano ed affascinavano i visitatori; eppure, il fattore vincente del padiglione cecoslovacco all’Expo ‘58, fu un altro: il design

La storia delle esposizioni universali è lunga più di un secolo e mezzo; un contenitore di episodi affascinanti, catalogati per anno: 1889, i nasi all’insù dei parigini che seguono l’inaugurazione della Tour Eiffel; 1937, i gerarchi nazisti infastiditi dall’esposizione del Guernica di Picasso; 1962, i primi passeggeri sull’avveniristica monorotaia di Seattle. La stessa storia ci racconta un ruolo affascinante per gli antenati dell’attuale Repubblica Ceca.

C’era un tempo in cui i cechi partecipavano alle Expo come sudditi dell’Impero austro-ungarico, esibendo le produzioni tessili o la lavorazione del cristallo, settori in cui la Boemia era il vanto di Vienna agli occhi del mondo. Ritroviamo ad esempio questa fama nel “Mondo di ieri” di Stefan Zweig, scrittore austriaco di origine ebraica, forse il più letto tra i suoi contemporanei degli anni Venti e Trenta; star mondiale della letteratura, il cui padre, originario della Moravia, era tra gli imprenditori che a fine Ottocento diedero vita “a piccole fabbriche improvvisate, mosse dapprima soltanto da forze idraulica, ma che a poco a poco si svilupparono fino a costituire la spina dorsale di quell’industria tessile boema che avrebbe dominato tutta l’Austria e i Balcani”.

Eppure il genio artistico riuscì ad uscire dal ruolo di forza industriale, e stupire. È il caso dell’Expo 1900, a Parigi, quando Alfons Mucha si distinse per le sue decorazioni dei domini balcanici: fu lui a disegnare il padiglione della Bosnia Erzegovina. La fiera lanciò l’Art Nouveau come lo stile dei tempi, e Mucha, suo principale protagonista, venne premiato per i suoi lavori; ci tenne a sottolineare come il suo senso estetico fosse la concettualizzazione delle terre natie, del suo essere ceco. Finalmente indipendenti, nei tempi della Prima Repubblica, i cecoslovacchi mantennero il carattere elegante e avanguardistico che la stessa democrazia mitteleuropea, circondata da governi autoritari, voleva dare di sé.

A Barcellona ‘29 le decorazioni del padiglione nazionale valsero a Ladislav Sutnar, architetto e grafico di Plzeň, una medaglia d’oro per il design dalle forti geometrie che diede vita allo stile costruttivista (il cui erede sarà il realismo socialista).

Ma il capolavoro cecoslovacco arrivò nel 1958, con l’Expo di Bruxelles, la prima grande fiera della Guerra Fredda. Un momento di calma nello scontro tra blocchi: la rivoluzione non era ancora giunta a Cuba, Chruščëv guidava la de-stalinizzazione. Per Praga era la prima possibilità di mettere in mostra le eccellenze del progresso socialista; per molti cecoslovacchi, la prima possibilità di un viaggio verso Ovest. Il Paese aveva chiamato a raccolta i suoi artisti più in gamba; Laterna Magika, il particolare mix di teatro, danza e proiezioni tutt’oggi grande attrazione turistica praghese, fece il suo debutto proprio alla grande fiera, in uno spettacolo ideato da Alfréd Radok e Josef Svoboda. Assistente di Radok a quei tempi era un certo Miloš Forman, 26enne, all’inizio di una carriera che lo portò ad essere tra i più grandi registi del cinema mondiale. Anche Jiří Trnka, il famoso “Walt Disney dell’Est”, partecipava agli eventi proiettando alcuni suoi film e portando in anteprima il suo “Sogno di una notte di mezz’estate” di Shakespeare.

Una grande parata di artisti, che incuriosivano ed affascinavano i visitatori; eppure, il fattore vincente del padiglione cecoslovacco all’Expo ‘58 fu un altro: il design, ancora una volta. L’invenzione di uno stile morbido e moderno, celebre ancora oggi.

“František Cubr, Josef Hrubý, Zdeněk Pokorný…” Michaela snocciola i nomi dei grandi architetti praghesi le cui firme diedero vita al padiglione di quell’anno. Ventiquattrenne, occhi blu, studentessa di storia dell’arte all’Università Carolina. Nel suo campo quei nomi, poco conosciuti al grande pubblico, si pronunciano con entusiasmo. Siamo in un caffè dell’elegante quartiere praghese di Vinohrady, il “Kaaba”, ispirato in ogni suo dettaglio allo stile dell’Expo ‘58, il “Bruselský styl”: forme arrotondate e leggere dell’arredamento, lampade pastello, pareti con disegni geometrici dai colori tenui, tavolini rotondi circondati da sedie con toni più accesi. Si intuisce il soprannome di “modernismo morbido”.

Michaela tiene sotto braccio un’edizione del volume “Bruselský sen”, il sogno di Bruxelles, edito qualche anno fa in occasione del cinquantesimo anniversario, che ne racconta l’influenza sullo stile di vita degli anni ‘60. “Gli altri Paesi portarono progetti sulla scia delle ultime grandi esposizioni, quando vinceva la scuola Bauhaus e il funzionalismo; i nomi ancora in voga erano quelli di Barcellona ‘29, Ludwig Mies van der Rohe e László Moholy-Nagy, grandi artisti dell’architettura moderna e industriale. Alcuni progetti erano degli anni Trenta, bloccati dall’annullamento della fiera di New York del 1939. I cecoslovacchi portarono qualcosa di diverso”; un diverso che colpì a tal punto da vincere il Grand Prix come miglior padiglione espositivo: la piccola nazione stretta nella sfida tra potenze riuscì a sorprendere il mondo.

Il sogno di Bruxelles, va sottolineato, rappresentava un mondo ideale, un’ambizione a volte lontana dalla vera Cecoslovacchia socialista, un design difficilmente riproducibile su scala nazionale. Qualcosa tornò concretamente in patria: un ristorante del padiglione, ideato dal trio Cubr-Hrubý-Pokorný, fu smontato e ricostruito nel parco di Letná, a Praga. Patrimonio svenduto negli anni Novanta, oggi ospita gli uffici di un’agenzia pubblicitaria.

Il boom del 1958 fu la vittoria più grande, ma la Cecoslovacchia riuscì a convincere ancora. “Il Kinoautomat a Montreal ‘67!” sottolinea la studentessa.

Alla fiera canadese Praga riuscì a mantenere le attese per un padiglione che sapesse stupire: il regista Radúz Činčera inventò il primo film interattivo, una delle attrazioni più felici dell’intera Expo. Si trattava di una proiezione con nove interruzioni; ad ogni stop un “bivio”che dava all’audience la possibilità di decidere la direzione della trama, così da prendere parte alla composizione del film. Una commedia nera su un appartamento alle prese con un incendio ed alla fine della quale, non importa la sequenza di scelte, l’intero palazzo era destinato alle fiamme; per Činčera, una satira delle democrazie occidentali. Montreal detenne a lungo il record di visitatori, furono oltre 50 milioni totali; il padiglione cecoslovacco fu il quinto più visto, ancora una volta al pari delle grandi nazioni.

Nel 1986, nuovamente in Canada (Vancouver) Činčera riportò quel mix di arte e innovazione, sulla scia del Kinoautomat; questa volta il pubblico non decideva le sorti degli attori, ma entrava in prima persona sullo schermo con “Actorscope”e “Selectorama”, un mix di effetti ottici che trasportavano i visitatori sul ponte Carlo, o su un pallone aerostatico sopra la città boema.

Dal Divorzio di Velluto, negli ultimi vent’anni, la Repubblica Ceca non ha fatto segnare apparizioni eccezionali alle fiere universali, distinguendosi a volte più per la sua assenza (all’Expo 2008 di Saragozza). Nel 2010 il padiglione ceco è tornato ad incuriosire, nel mezzo della più grande Expo mai organizzata, a Shangai: 192 Paesi e 73 milioni di visitatori. Ancora una volta ha vinto l’immaginazione, con la futuristica opera di Federico Díaz, ceco di origini argentine; “LacrimAu”, un’enorme lacrima dorata racchiusa in una gabbia di vetro: ogni visitatore, entrando nella gabbia con una cuffia di sensori, azionava il rilascio di una fragranza modulata sulle proprie reazioni. Una installazione che ha portato il padiglione ceco a superare i cinque milioni di visitatori.

A breve, inizierà l’Expo di Milano, a tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Dopo alcuni tentennamenti, la Repubblica Ceca ha confermato la propria partecipazione. Sulle spalle una carriera importante, ma ancorata ai sogni del passato. La sfida: tornare a stupire.

di Giuseppe Picheca