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Bellezza e difetti di una delle opere più complesse di Alfons Mucha, capolavoro che attende di essere nuovamente esposta al pubblico

L’Epopea slava di Alfons Mucha, al netto una delle più grandi opere mai realizzate da un artista ceco e forse anche a livello mondiale, negli ultimi anni ha ricevuto una certa notorietà che tuttavia non è dovuta tanto al suo valore artistico ma a questioni legali e alla necessità di esporla permanentemente in un unico luogo.

Lasciamola a Moravský Krumlov, dopotutto sta lì dal 1963. Ma Mucha l’ha donata a Praga, dovremmo trovare un posto per metterla! Ma dove li metti 20 quadri di 6 metri per 8? Teniamoli alla Galleria nazionale per un po’ poi si vedrà! Ci sarebbe il nipote dell’artista, John Mucha, che la reclama per sé. Perché non le facciamo fare una gita in Asia, così prendiamo tempo?

Questo in soldoni il dibattito attorno a questo ciclo di 20 tele, che attualmente si trovano nei confortevoli scantinati della Galleria di Praga in attesa di collocamento. Un dibattito – esploso quasi dieci anni fa, dopo che l’Epopea era rimasta per quasi 70 anni lontana dal grande pubblico (a Moravský Krumlov appunto) – che non sembra tenere in considerazione i quadri in sé, ma sembra più legato a questioni di prestigio. Il tema andrebbe però affrontato anche alla luce di ciò che questo lavoro effettivamente è.
Al di là delle recenti presentazioni trionfalistiche, che sottolineano la grandiosità dell’opera, vedere l’Epopea slava dal vivo, oltre all’ammirazione per un’opera così grandiosa, lascia alcune perplessità. Il senso complessivo è che alcune tavole abbiano un valore tecnico indiscutibile, mentre altre paiono dei riempitivi annacquati o troppo cupi. Ciò non ha a che fare con i temi e gli episodi presentati nelle singole tele. Il ciclo ripercorre la storia degli slavi dalle origini pagane e ne segna i momenti importanti, ovviamente con un occhio di riguardo alla storia ceca (10 tavole su 20).

Le perplessità devono comunque essersi palesate anche quando Mucha, nel 1929 e dopo 18 anni di lavoro, presentò l’opera a Praga, dove fu giudicata anacronistica e non raccolse un particolare successo. In effetti, però, anacronistica lo era davvero, e lo si spiega facilmente. Nella prima repubblica cecoslovacca dominavano le avanguardie, come in tutta l’Europa. Le correnti in voga a Praga erano il poetismo, il dadaismo e il surrealismo. La riscoperta delle radici slave era passata da tempo e la trasformazione della Russia in Unione Sovietica aveva nettamente frenato l’idea del panslavismo. Logico dunque che un’opera con forte impostazione accademica non destasse particolare scalpore.

Il tempo adeguato sarebbe stato quello del Národní obrození (il Risorgimento ceco). Il tempo dell’austro-slavismo di František Palacký, delle elegie sulla principessa Libuše di Julius Zeyer, della Má vlast di Bedřich Smetana. Un periodo conclusosi almeno 40 anni prima. Non è un caso che il committente dell’opera non fosse né ceco né slovacco, ma uno statunitense appassionato di cultura slava, Charles Richard Crane.

A ciò vanno aggiunti alcuni limiti tecnici e compositivi dello stesso autore. Perché Mucha, ricordiamolo, era soprattutto un grafico; realizzava i suoi manifesti con pastelli e acquerelli da cui poi venivano prodotte le litografie. L’Epopea slava, al contrario, è realizzata combinando tempere e oli, tecniche a cui Mucha era meno abituato e pertanto avrebbero potuto risultare insidiose anche per un artista esperto come lui. Ne parleremo in seguito.

Molti quadri dell’epopea hanno una composizione simile, il che è utile poiché contribuisce a dare omogeneità al ciclo. Un caso lampante è dato da due delle tavole migliori, ovvero “La celebrazione di Svantovit sull’isola di Rügen” e “L’introduzione della liturgia slava nella grande Moravia” (tele 2 e 3 del ciclo). La composizione è sostanzialmente capovolta. Trovate grandi figure umane in primo piano da un lato, figure umane più piccole dall’altro ed edifici o elementi naturalistici di sfondo. Ciò che rende diversi i due quadri è più che altro la religione-tema (paganesimo prima, cristianesimo poi). In questi due quadri il lavoro funziona meravigliosamente perché Mucha è stato molto abile nel gestire le tempere e gli oli. Meno bene è andata, ad esempio, con “L’incoronazione di Stefano Dušan” (grande re del popolo serbo, tavola numero 6), dove i colori sono piuttosto chiassosi e l’effetto complessivo assai poco entusiasmante.

A tal proposito vanno ancora ricordate “Predica di Jan Hus nella cappella di Betlemme” e “Giorgio di Boemia re dei due popoli” (tavole 8 e 13). In questo caso la ripresa della composizione è particolarmente importante perché lega i quadri che rappresentano l’inizio e la fine delle guerre hussite. Il problema è che altre volte si ha l’idea di stare davanti alla stessa tavola e invece si tratta di tre quadri diversi.

In ogni caso, quasi tutte le composizioni sono particolarmente elaborate, con diversi piani prospettici, un gran numero di persone e complessi elementi architettonico-naturalistico-ornamentali (perché Mucha era un grafico, ma anche uno degli esponenti di punta del liberty). Tale complessità, per non risultare dozzinale o troppo pomposa, deve essere sostenuta da una gestione dei colori molto abile, e come si è detto l’artista per la sua Epopea usò una tecnica tanto ambiziosa quanto impegnativa.

Le tempere sono colori basati sull’acqua, gli oli, appunto, sull’olio. Così come acqua e olio non si mischiano, anche la combinazione di questi elementi richiede abilità. Si può fare, ma bisogna essere abili.

Mucha in effetti lo era: optò per una tecnica pragmatica, ovvero realizzare le parti in alto (il cielo e gli sfondi) con le tempere, in modo da dar loro una sensazione di sfumato. Ciò fa risaltare maggiormente gli oli in primo piano, che sono pure più lucidi e dominano la scena. In alcuni casi il risultato è stato ottimo, altre volte meno. Il caso migliore sembra essere “L’abolizione della servitù della gleba in Russia” (tavola 19), in cui le persone “bucano la tela” davanti alla nebbiosa San Basilio sullo sfondo, e l’immagine ha un ottimo senso “3D”. Altre volte il risultato sono tele decisamente troppo “temperose”. Troppo sfumate. Insomma, piatte. È il caso, per dire, della tavola 16 sull’esilio di Komenský, in cui tutto pare annacquato.

A questo bisogna aggiungere la struttura chimica dell’olio, più elastica rispetto alla tempera. Vale a dire che il colore a olio nel corso degli anni tende a dilatarsi, la tempera no. E questo è un problema non indifferente: se uno strato di olio viene dato sotto a uno di tempera, l’olio col tempo la polverizza. La cosa fantastica è che in alcuni punti pare sia andata così sebbene Mucha abbia seguito un metodo per cui non sarebbe dovuto accadere. Inoltre, la tempera all’uovo usata per l’Epopea slava veniva prodotta dallo stesso Mucha con l’aiuto della figlia. E ciò significa che in sede di restauro è necessario azzeccare le stesse proporzioni di acqua, uovo e pigmento usate da Mucha, non una cosa semplicissima. Aggiungiamo poi i problemi finanziari di Mucha in corso d’opera, a voler essere cattivi (ma non abbiamo prove) si può ipotizzare dunque che sia andato al risparmio ed abbia usato tanta acqua e poco uovo. Questo spiegherebbe perché quelle tempere si sfaldano con un colpo di tosse.
Ricordiamo pure le vicissitudini dell’Epopea, che durante la guerra fu nascosta a Slatiňany presso Pardubice, in condizioni precarie (non essendo considerata il gran capolavoro che Mucha avrebbe voluto creare). Tali circostanze fecero sì che l’opera dovette essere ripulita e massicciamente restaurata già negli anni 50, a 20 anni dalla sua prima esposizione completa. Ora, restaurare un lavoro dopo vent’anni non è quello che si dice “un biglietto da visita di qualità”. Per dire, anche la “Dama con l’ermellino” di Leonardo si è fatta la guerra in uno scantinato polacco (del Wawel, ma sempre scantinato), ma poi è stata restaurata marginalmente e soprattutto perché qualcuno ci ha camminato sopra. E questo ci porta all’unica vera considerazione quando si parla di “trovare una degna collocazione all’epopea slava”. Queste 20 tele sono molto delicate e vanno trattate con cura. Diciamo che un viaggio in Giappone (o una mostra nel trafficatissimo Obecní dům) non fa esattamente bene a questi lavori, anche se li vedono in 650 mila persone e ne fanno la terza mostra d’arte più vista del 2017.

La collocazione dovrebbe essere un luogo grande, perché queste tavole vanno viste dalla distanza per essere apprezzate. E da questo punto di vista anche il castello di Moravský Krumlov non è un luogo ottimale. Deve essere un luogo con poca luce, altrimenti i colori vengono compromessi (soprattutto le tempere). Infine deve essere un luogo a ingresso limitato, perché anche il respiro delle persone (umidità) può far male ai quadri. La collocazione data al ciclo nella Galleria nazionale era pressoché perfetta e bisogna pensare a qualcosa di simile. Che sia Praga o no.

di Tiziano Marasco