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Obiettivo numero uno di Praga: ridurre dipendenza dai mercati dell’Europa occidentale

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La Repubblica ceca, paese che vende all’estero circa due terzi di quanto produce, nei prossimi anni considera di primaria importanza diminuire la dipendenza dai mercati dell’Unione europea, dove attualmente è indirizzato l’83% dell’export. L’obiettivo, da raggiungere entro il 2020, è di ridurre tale quota al 70%, come sottolineato dal ministro dell’Industria e del Commercio, Martin Kocourek, durante la presentazione della strategia nazionale dell’export per i prossimi anni.
La malaparata che si prospetta in Eurozona, con il rischio fondato di un nuovo periodo di recessione in Ue, sta rendendo pressante questa necessità. A preoccupare Praga è soprattutto la prevista frenata dell’economia tedesca, visto che la Germania è il paese dove è indirizzato un terzo dell’esportazioni ceche.
Per il settore produttivo di questo paese si tratterà, almeno parzialmente, di compiere un processo inverso a quello degli anni ’90, quando molte aziende ceche, dopo la fine del Patto di Varsavia e il crollo dell’impero sovietico, furono chiamate a confrontarsi con i mercati occidentali. La sfida non fu certo indolore. In alcuni casi persino fatale. Però ci furono anche esempi positivi, in primo luogo quello della casa automobilistica Skoda Auto, entrata con successo nel gruppo Volkswagen.
La parola d’ordine che il governo di Praga proverà quindi a far valere, fra le imprese nazionali, è quella di andare alla conquista di nuovi mercati, ad iniziare da quelli dove un tempo – quando ancora Praga e Bratislava facevano parte dello stesso stato federale – il made in Czechoslovakia era di casa, come la Russia e tutti gli stati dell’allora Unione Sovietica. Molta attenzione c’è però anche per tutto il Bric, quindi soprattutto Cina, India e Brasile.
Le premesse perché il nuovo cambio di rotta possa avere successo, ci sono. Il sistema economico ceco ha dimostrato negli ultimi anni di saper resistere con vigore alla crisi e molti gruppi industriali hanno colto l’occasione per realizzare piani di riorganizzazione, nonché investire in ricerca e innovazione. Tutto questo si è proiettato, sinora, in forma positiva e potrebbe costituire la marcia in più per imporsi nei nuovi mercati.
Per quanto riguarda in particolare la Russia e i paesi dell’ex Urss, si tratta di mercati dove il Made in Czech conserva ancora una reputazione elevata.

La strategia del governo ceco, oltre a ridurre la dipendenza dai mercati Ue, punta anche a far aumentare le piccole e medie aziende che partecipano all’export nazionale, nonché a far crescere il numero dei settori produttivi indirizzati ai mercati stranieri.
Attualmente, infatti, oltre il 50% dell’export ceco fa capo a un cerchio ristretto di dieci grandi aziende. Inoltre, ben il 65% dei beni esportati rientrano nel comparto dell’industria automobilistica. Più volte gli economisti hanno sottolineato i molteplici rischi collegati a questa ulteriore forma di unilateralità dell’export nazionale.
Posti gli obiettivi, si tratta chiaramente anche di stabilire il modo con il quale poterli raggiungere.
Il governo ceco punta soprattutto sulla efficacia della propria cosiddetta “diplomazia commerciale”. Anche la Camera di commercio della Repubblica ceca (Hospodářská komora České republiky) ha di recente premuto su questo tasto, chiedendo il rafforzamento delle missioni diplomatiche in grado di aprire nuovi mercati stranieri. Di strutture di questo tipo non hanno probabilmente bisogno i grandi gruppi industriali, ma sono di importanza fondamentale, soprattutto in determinati paesi, per le aziende di minori dimensioni.
Essenziale sarà anche l’operato dei due istituti finanziari a partecipazione pubblica che sostengono le aziende ceche nei nuovi mercati, vale a dire la Česká exportní banka (istituto di credito che finanzia le operazioni di commercio estero) e la Egap (la società di garanzia e assicurazione del credito per l’export).
Da valutare saranno anche i costi che la nuova strategia commerciale comporterà. Il ministro Kocurek si è espresso in termini ottimistici: “l’effetto sul bilancio pubblico sarà pari a zero. Basterà solo organizzare meglio gli organismi di cui disponiamo e coordinare la loro agenda di lavoro”.