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Tra memorie condivise, identità nazionali e nuovi assetti post-confederali il traduttore e giornalista italo ceco Andreas Pieralli ci spiega perché il libro del rinomato saggista ceco Pavel Kosatík, è un’opera fondamentale per capire il passato e il presente della ex Cecoslovacchia

Il secolo breve slovacco, una storia anche ceca

A più di trent’anni dal cosiddetto “divorzio di velluto”, la Slovacchia resta un paese poco conosciuto in Italia e ai margini del panorama editoriale italiano. Il saggio “Il secolo breve slovacco” di Pavel Kosatík, pubblicato da Golem Edizioni, rompe questo silenzio raccontando un secolo di storia slovacca intrecciato a quello della attuale Repubblica Ceca. La traduzione del volume è firmata dal giornalista Andreas Pieralli, da anni residente a Praga, il quale ha lavorato a stretto contatto col curatore, Francesco Caccamo. In questa intervista, Pieralli ci guida dietro le quinte di quest’opera densa ma accessibile, sottolineando il ruolo della dimensione umana nella narrazione storica

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Com’è nato il progetto di tradurre Il secolo breve slovacco di Pavel Kosatík?
Il progetto è nato in modo piuttosto semplice: già da tempo era incuriosito da questo libro, di cui avevo sentito più volte parlare. Tra l’altro conosco l’autore anche di persona, perché frequento le serate a tema che lui organizza regolarmente nella sua splendida casa sulla Hradčanské náměstí. All’epoca si ricordavano i 30 anni del cosiddetto Divorzio di velluto e si parlava molto anche dei rapporti con i Cechi: perché si sono uniti nel 1918 e perché si sono poi separati nel 1993. Così ho acquistato il libro, l’ho letto e l’ho trovato non solo interessante, ma anche molto scorrevole. Non è infatti un testo accademico, ma un’opera pensata per un pubblico ampio, scritta con una penna leggera e coinvolgente.
Da lì è nata l’idea. Essendo traduttore, mi capita spesso di imbattermi in libri cechi che mi piacciono e pensare possano essere interessanti anche per il pubblico italiano. All’inizio era solo un’idea vaga, un po’ velleitaria, ma col tempo ho iniziato a raccogliere informazioni, a parlarne in giro. Quando ho condiviso l’idea con l’autore, lui si è mostrato subito interessato. Così ne abbiamo parlato con il professor Francesco Caccamo, che insegna storia dell’Europa orientale all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti-Pescara, e anche a lui l’idea è piaciuta.
Ma ovviamente non bastava: serviva anche un editore disposto a pubblicare il progetto. Fortunatamente, abbiamo trovato il sostegno di Golem Edizioni, in particolare del comitato scientifico della collana Latitudini – Mille e una Europa, curata da Donatella Sasso e Andrea Franco, che ultimamente si concentra sull’Europa centro-orientale, nonché della direttrice della casa editrice, Francesca Piazza, che ha creduto nel progetto. E così, il libro è stato pubblicato in Italia il 13 dicembre 2024.

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Cosa ti ha colpito di più di questo saggio durante la traduzione?
In parte l’ho già accennato: è un saggio pensato non solo per gli studiosi o gli addetti ai lavori, ma per un pubblico più ampio. Un aspetto che mi ha colpito, così come altri lettori, è la struttura del libro: i capitoli sono brevi e ciascuno ruota attorno a un personaggio chiave. L’autore non si limita a descriverne il ruolo storico e politico, ma approfondisce anche la dimensione psicologica, familiare e formativa di ciascuno. Questo approccio conferisce profondità umana agli eventi, rendendo più chiaro il contesto in cui si sono sviluppati i fenomeni storici. Certo, ci sono sempre motivazioni politiche, economiche, sociali o militari. Ma ci sono anche le persone, con le loro decisioni, illusioni e pressioni subite. È questo che il libro riesce a mettere in luce, e lo fa con grande efficacia. Basti pensare ad Alexander Dubček, figura centrale a cui viene dedicato ampio spazio. Cresciuto in una famiglia socialista, visse per alcuni anni in Unione Sovietica partecipando con il padre al progetto Interhelpo, un collettivo di lavoratori in Kirghizistan. Parlava russo perfettamente, e il suo forte legame culturale ed emotivo con il mondo sovietico lo rese forse incapace – o non disposto – a vedere ciò che poi sarebbe accaduto nell’estate del ‘68. A chi gli ricordava quanto era accaduto nel ’56 in Ungheria, Dubček più volte avrebbe detto: “Ma a me questo non lo faranno mai.” È proprio in casi come questo che il libro mostra tutta la sua forza: i grandi eventi storici vengono raccontati attraverso le esperienze personali, rendendoli vivi e comprensibili.

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A proposito di personaggi e aspetti umani, nel libro si parlerà probabilmente anche della relazione tra Milan Rastislav Štefánik e la sua fidanzata italiana, la marchesina Giuliana Benzoni?
Sì, la Benzoni viene menzionata. Una curiosità emersa durante una recente presentazione del libro tenutasi a Roma presso l’Ambasciata slovacca, che ne ha seguita un’altra organizzata presso la John Cabot University di Roma dal professor Federigo Argentieri, è che tra il pubblico c’era una nipote della marchesina. La Benzoni, aristocratica italiana, ebbe un ruolo cruciale nell’introdurre Štefánik nei salotti dell’alta società e della politica italiana. Certo, Štefánik era un uomo eccezionale, con carisma, talento diplomatico e un naturale fascino personale. Ma la sua relazione con la Benzoni gli permise di accedere con più facilità in certi ambienti dove si decidevano i destini dei popoli e dove promosse con passione l’idea — tutt’altro che scontata all’epoca — di una Cecoslovacchia indipendente.
In definitiva, la relazione con la giovane nobildonna italiana non è solo un dettaglio romantico, ma uno degli aspetti che contribuiscono a restituire la dimensione umana dei protagonisti storici. E la presenza della nipote alla presentazione ha dato un tocco personale in più: ci ha raccontato come in famiglia il ricordo di Štefánik sia ancora vivo, e come quel loro amore sia rimasto impresso tanto nella memoria privata della famiglia Benzoni quanto nella Storia.

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Tu di recente hai tradotto anche gli “Invincibili 11 di papà Klapzuba”, di Eduard Bass, un classico della letteratura ceca. Come cambia l’approccio nella traduzione di un saggio storico, come quello di Kosatík, rispetto a un testo narrativo? E quali sono state le principali difficoltà linguistiche e culturali nel tradurre un testo così denso di storia e identità nazionale come “Il secolo breve slovacco”?
L’approccio è di sicuro molto diverso. Nel caso di un saggio storico, come quello di Kosatík, l’elemento centrale è la fedeltà concettuale al testo originale. Non si tratta di una fedeltà assoluta — spesso impossibile — ma comunque più rigorosa rispetto alla narrativa: ogni parola ha un peso, e l’obiettivo è restituire un italiano corretto, fluido e preciso, senza interpretazioni eccessive.
Con la narrativa, invece, si apre più spazio alla libertà creativa. L’obiettivo non è solo trasmettere un contenuto, ma restituire un’esperienza letteraria, trovando soluzioni che mantengano ritmo, tono e musicalità. In un certo senso, si riscrive l’opera in un’altra lingua, cercando di conservarne lo spirito.
Nel lavoro su Kosatík è stata fondamentale anche la curatela del professor Francesco Caccamo — che come me è italo-ceco (è figlio di Domenico Caccamo, non dimenticato direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga negli anni ‘60) — che ha seguito l’intera parte storica. Mentre io mi occupavo della resa linguistica e stilistica, sapevo di poter contare sul suo intervento per chiarire o integrare contenuti, soprattutto nei passaggi in cui l’autore dava per scontati riferimenti storici noti al pubblico ceco o slovacco, ma non necessariamente a quello italiano. L’apparato di note curato dal professor Caccamo ha reso il testo più accessibile, senza tradirne il significato.
Detto questo, il libro di Kosatík conserva comunque una componente narrativa: la struttura in capitoli brevi e focalizzati su singoli personaggi, unita a uno stile rigoroso ma scorrevole, rende la lettura coinvolgente. Questo ha reso il lavoro di traduzione non solo interessante, ma anche piacevole.
Come ha influito il tuo ruolo di giornalista e commentatore nell’opera di traduzione di questo volume e, più avanti, anche nella sua promozione?
Partiamo dal fatto che sono politologo: ho studiato Scienze Politiche a Firenze, e mi muovo con naturalezza nel campo della politica e delle scienze sociali. Questo background è stato molto utile nella traduzione del libro, perché mi ha permesso di cogliere sfumature e riferimenti che l’autore, rivolgendosi a un pubblico ceco o slovacco, dava per scontati.
Da quasi vent’anni mi interesso attivamente alla storia ceca e cecoslovacca, quindi ho potuto attingere a un solido bagaglio di conoscenze. Tutto ciò ha avuto un impatto anche sulla promozione del libro, che è uscito da pochi mesi.
Siamo consapevoli che si tratta di una pubblicazione di nicchia — un libro sulla Slovacchia non è destinato a vendere decine di migliaia di copie in Italia — ma Il secolo breve slovacco è un’opera unica nel panorama saggistico italiano: aggiornata, completa, accessibile. Colma una vera lacuna, e siamo molto fieri del lavoro fatto.
Anche il mio ruolo di giornalista e pubblicista, che svolgo da anni tra Praga e l’Italia, ha contribuito sia alla traduzione sia alla divulgazione del volume. Essere abituato a comunicare con pubblici diversi mi ha aiutato a rendere il contenuto chiaro e fruibile, anche per lettori italiani che si avvicinano per la prima volta alla storia slovacca.

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La dissoluzione pacifica della Cecoslovacchia viene spesso paragonata ad altri eventi ben più traumatici nel contesto post-comunista, soprattutto agli anni successivi al 1989. Cosa l’ha resa possibile, secondo te?
Va ricordato che, nei primi anni ‘90, la Cecoslovacchia veniva osservata con una certa apprensione. In quegli stessi anni stava infatti esplodendo la tragedia jugoslava, e si temeva potesse verificarsi un “secondo caso balcanico”. Fortunatamente, non è stato così.
A rendere possibile una separazione pacifica sono stati diversi fattori. Il primo, sottolineato anche da Kosatík, è una certa maturità politica, sviluppatasi nel tempo — e in particolare nella Repubblica Ceca — che ha permesso di affrontare il processo con equilibrio.
Un altro elemento decisivo, ricordato anche da storici come Jan Rychlík, è l’assenza di rivendicazioni territoriali: il confine tra Moravia e Slovacchia, oggi linea di Stato, è uno dei più antichi d’Europa e ha mantenuto la stessa configurazione per secoli. Questo ha contribuito a evitare tensioni come quelle ancora presenti, ad esempio, in Ucraina.
Un terzo aspetto, secondo me, è stato il comune orizzonte europeo. Entrambi i paesi nei primi anni ‘90 guardavano all’integrazione nell’Unione Europea e nella Nato come prospettiva futura. Avere davanti un progetto condiviso di stabilità e cooperazione ha probabilmente aiutato a mantenere i toni bassi e a gestire la separazione con maggiore pragmatismo.
Anche la divisione concreta dello Stato fu gestita in modo ordinato: il patrimonio venne ripartito secondo un criterio demografico di 2 a 1 tra Repubblica Ceca e Slovacchia. Un approccio pragmatico, che evitò lunghi contenziosi. Vale la pena notare, a questo proposito, che questo rapporto era ben diverso da quello dei primi anni del Novecento, quando i cechi erano circa tre volte più numerosi degli slovacchi. Nel tempo, dal 1918 al 1992, la Slovacchia ha conosciuto una notevole crescita demografica, il che ha riequilibrato il rapporto.

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Cosa intendi quando parli di “maturità politica” nel contesto della separazione tra Repubblica Ceca e Slovacchia? In che modo questa avrebbe inciso diversamente rispetto ad altri casi, come quello jugoslavo?
Capisco la perplessità sull’uso dell’espressione “maturità politica”. Probabilmente è legittimo chiedersi se gli slovacchi fossero davvero più maturi, ad esempio, dei serbi o dei croati. Ma in questo caso entrano in gioco altre variabili decisive. Cechi e slovacchi, pur appartenendo allo stesso impero, hanno vissuto per secoli separati, sotto corone diverse, senza una forte mescolanza etnica o la presenza di enclave complesse, come invece accadde in Jugoslavia o nell’Unione Sovietica. Non c’erano rancori storici né conti in sospeso: la loro unione nel 1918 fu un “matrimonio d’interesse”, e quando quell’interesse venne meno, si arrivò a un “divorzio di disinteresse”. Nessuno cercava di imporsi sull’altro, e questo ha reso possibile una separazione pacifica, quasi unica nel contesto delle transizioni post-comuniste.

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Alcuni sostengono che nella separazione della Cecoslovacchia abbiano giocato un ruolo anche interessi esterni, perché a qualcuno non conveniva avere un Paese forte e unito nel cuore dell’Europa, soprattutto considerando la sua industria militare sviluppata. Secondo te c’è qualcosa di vero in questa interpretazione?
Se devo essere sincero, questa lettura mi sa un po’ di complottismo. L’idea del “divide et impera” applicata al 1993 può avere un fondo di verità, ma è difficile da dimostrare. È interessante ricordare che, già durante la Prima guerra mondiale, Masaryk usò l’argomento opposto per convincere gli americani: serviva uno Stato forte al centro dell’Europa per contenere il pangermanesimo e il militarismo tedesco. E per un periodo, anche tra le due guerre, la Cecoslovacchia fu vista come un baluardo strategico.
Che nel ‘93 ci siano stati interessi contrari è possibile, ma mi sembra più un’interpretazione nostalgica che un dato storico certo. Questa tendenza l’ho riscontrata spesso anche parlando con persone che hanno vissuto quegli anni: il racconto storico è spesso filtrato dalla memoria personale, e l’età ha il suo peso.
Più si è avanti con gli anni, più si tende a idealizzare il passato, non tanto per una valutazione oggettiva, ma perché coincide con la propria giovinezza. Lo vediamo ovunque: anche in Occidente si rimpiangono i tempi “prima dei cellulari” o “prima dei social”, dimenticando i problemi reali di allora, come l’inquinamento o i disservizi.
Insomma, la nostalgia personale influenza spesso il modo in cui raccontiamo la storia. Non è un discorso scientifico, ma credo abbia un peso importante.

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Pensando ai contrasti attuali tra il governo slovacco e quello ceco, che risposte può offrire oggi un libro come Il secolo breve slovacco?
È una domanda interessante e complessa. Per rispondere, partirei ancora una volta dalla storia, che resta la chiave più utile per interpretare anche il presente. Il secolo breve slovacco aiuta a capire non solo perché la Cecoslovacchia nacque, ma anche perché si dissolse, offrendo così strumenti preziosi per leggere le dinamiche odierne.
Storicamente, i cechi vantavano una propria tradizione statuale già dal Medioevo, mentre gli slovacchi, per secoli soggetti alla magiarizzazione, non avevano avuto un’autonomia paragonabile. L’unione del 1918 fu un’alleanza pragmatica: per gli slovacchi, un modo per sfuggire al revanscismo ungherese; per i cechi, un mezzo per bilanciare il peso della popolazione tedesca. Ma, una volta venute meno queste ragioni, emerse il bisogno slovacco di costruire una propria identità nazionale.
Oggi vediamo come la Slovacchia continui a definire sé stessa in opposizione a un “altro”: prima gli ungheresi, poi anche i cechi, e ora, con il governo Fico, l’Occidente, Bruxelles, Washington. È una narrativa populista ben nota, che strumentalizza la percezione di minaccia culturale e identitaria, nonostante l’Occidente sia stato il garante della libertà slovacca dopo il 1993.
La differenza profonda tra Repubblica Ceca e Slovacchia oggi sta nella diversa percezione della propria collocazione geopolitica: i cechi, pur con tensioni interne, restano saldamente ancorati all’Occidente; la Slovacchia appare più vulnerabile alla propaganda, soprattutto russa, come confermato dai sondaggi.
Questa fragilità identitaria si riflette anche nella politica: la Slovacchia, pur avendo adottato l’euro e compiuto passi importanti verso l’Europa, è oggi guidata da una leadership che cavalca l’euroscetticismo. Tuttavia, i rapporti tra i due popoli restano eccellenti: cechi e slovacchi continuano a collaborare, viaggiare e sentirsi culturalmente vicini, in un legame quasi unico in Europa.
In questo senso, Il secolo breve slovacco non offre soluzioni politiche, ma spunti fondamentali per capire le radici storiche delle identità nazionali e, forse, per evitare che i legami costruiti nel tempo si rompano.

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E nel contesto europeo, come descriveresti gli attuali rapporti tra Repubblica Ceca e Slovacchia?
Come ho detto, c’è un legame profondo tra i due popoli, fatto di affinità linguistiche, culturali e storiche. Le relazioni quotidiane, i flussi di persone e il dialogo tra le società civili restano vivi e solidi. Non c’è davvero la percezione di un “confine” tra i due paesi, e questo è qualcosa di molto raro.
Nel contesto europeo, però, la situazione si fa un po’ più complessa. La Slovacchia, negli ultimi tempi, sembra ispirarsi sempre più apertamente alla linea di Viktor Orbán: usa il meccanismo dell’unanimità in sede Ue per porre veti, fare pressioni, ottenere concessioni. In questo gioco di ricatto istituzionale, a volte sembra persino superare l’Ungheria.
Fico, in questo senso, potrebbe essere visto come un allievo che ha superato il maestro. Ma resta da vedere quanto a lungo questa strategia sarà sostenibile e che effetti avrà sulle dinamiche interne ed europee.
Torniamo al passato: perché cechi e slovacchi vivono in modo diverso il 1968, nonostante paradossalmente Dubček, simbolo della Primavera di Praga, fosse slovacco?
Per rispondere bisogna fare una premessa storica fondamentale. Già nel marzo del 1939 gli slovacchi fondarono un proprio Stato indipendente per la prima volta nella storia: lo Slovenský štát, lo Stato fantoccio guidato da monsignor Jozef Tiso, alleato dei nazisti – mal visto per i suoi eccessi dalla Santa Sede stessa – e poi giustiziato dai comunisti. Lo cito non tanto per legittimare quel regime, ovviamente, quanto perché serve a capire una dinamica ricorrente che il libro mette molto bene in luce: la Slovacchia ha sempre cercato spazi di autonomia nei grandi momenti di rottura storica.
In questo senso, Il secolo breve slovacco — titolo che tra l’altro ho proposto io, ispirandomi al Secolo breve di Hobsbawm — racconta proprio quel percorso che parte dalla Prima guerra mondiale e arriva fino al 1993, mostrando come gli slovacchi abbiano spesso colto le crisi del sistema comune con i cechi come occasioni per rafforzare la propria autonomia.
Ed è così anche nel 1968. I cechi ricordano la Primavera di Praga soprattutto per la richiesta di libertà politiche, diritti civili, fine della censura. Per gli slovacchi, invece, quel momento ha avuto anche — e forse soprattutto — un significato di emancipazione nazionale. Petr Pithart, primo ministro della Cecoslovacchia post-1989, sostiene infatti che la Primavera fu vissuta dagli slovacchi come una nuova opportunità per ottenere maggiori margini di autonomia, non tanto per separarsi (all’epoca cosa ancora impensabile), ma per ridefinire i rapporti all’interno dello Stato comune.
E questo spiega anche un paradosso: l’invasione sovietica, sebbene ovviamente subita anche dagli slovacchi, portò con sé l’unica vera concessione strutturale rimasta di quell’esperienza riformatrice, altrimenti soffocata — la federalizzazione. Dal 1969 la Repubblica socialista cecoslovacca divenne formalmente una Repubblica Federale, composta da due entità: quella ceca e quella slovacca. Un risultato che non arrivò per volontà ceca, ma per imposizione sovietica. E questo dice molto.
Il libro suggerisce che, in più occasioni, gli slovacchi abbiano fatto dei “patti col diavolo” — prima con Hitler, poi con Brežnev, poi ancora con l’Unione Europea — pur di conquistare e mantenere una propria autonomia. Non è un giudizio morale, ma una constatazione politica: un piccolo popolo in una regione centrale d’Europa, storicamente circondato da vicini più grandi e potenti, che ha sempre cercato di sopravvivere ritagliandosi spazi propri, a qualsiasi costo.
Questo modo di vedere il rapporto con i cechi emerge con forza nel libro, che delinea anche una critica esplicita ai cechi, accusati di non aver mai realmente capito — né soddisfatto — le richieste di autonomia slovacca. Per molti cechi, la Cecoslovacchia era semplicemente un’estensione del proprio progetto nazionale. E questo è visibile anche in piccoli dettagli simbolici: ad esempio, la bandiera attuale della Repubblica Ceca è la stessa della Cecoslovacchia, nonostante l’accordo di separazione del 1992 prevedesse che nessuna delle due repubbliche avrebbe mantenuto i vecchi simboli comuni. I cechi, di fatto, hanno disatteso quell’accordo.
I colori della bandiera boema — bianco e rosso — erano identici a quelli polacchi. Per rappresentare graficamente l’unione con la Slovacchia, si aggiunse allora quel triangolo blu a sinistra, simbolo della componente slovacca. Quel “cuneo blu” è rimasto anche dopo il 1993, pur senza più gli slovacchi nello Stato. Una piccola curiosità, sì, ma anche un’immagine emblematica: l’unione era finita, ma l’impronta lasciata dalla Slovacchia è ancora lì.

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Avviandoci verso la conclusione, avrei una domanda da porti: in passato ti sei occupato di diversi progetti culturali italo-cechi. Penso al terzo centenario della morte dell’architetto barocco di origini italiane Santini e ad altre iniziative. Hai qualche anticipazione da darci? Stai seguendo qualcosa di nuovo o hai in mente qualcosa per il futuro?
Sai com’è, di solito i progetti che si vogliono davvero realizzare non si anticipano… per una sorta di scaramanzia! Però, qualcosa posso dirlo. In questo momento sto lavorando intensamente alla traduzione di un terzo libro, questa volta un romanzo. L’autore è Josef Škvorecký, un grande scrittore ceco emigrato in Canada, dove fondò la celebre casa editrice 68 Publishers, che ebbe un ruolo cruciale in quanto pubblicava all’estero i testi della dissidenza cecoslovacca, dando voce a intellettuali censurati nel proprio paese.
Per Miraggi Edizioni è già uscito I vigliacchi, un romanzo ambientato durante le ultime giornate dell’insurrezione di Praga, poco prima della fine della guerra. È una narrazione che mostra — anche implicitamente — le differenze tra la resistenza slovacca e quella ceca: i partigiani slovacchi si mobilitarono in modo più precoce e strutturato, mentre a Praga l’insurrezione scoppiò solo il 5 maggio 1945, quando ormai Hitler era morto, i sovietici alle porte e la guerra praticamente conclusa. Fu una sorta di epilogo e vendetta, più che una resistenza vera e propria.
Adesso sto lavorando alla traduzione di un altro romanzo di Škvorecký, Tankový prapor (che potremmo tradurre come Battaglione Carristi, anche se il titolo italiano sarà probabilmente diverso). Non voglio dire troppo — per motivi di scaramanzia più che altro — ma il lavoro è avviato e spero che possa vedere la luce prossimamente.
In parallelo, sto pensando a un piccolo podcast. Nulla di pretenzioso, qualcosa di semplice. Si chiama Storie e destini italo-cechi e ho già registrato una prima puntata con il professor Caccamo, dedicata proprio al Secolo breve slovacco. L’idea sarebbe quella di creare una serie di conversazioni con autori, studiosi e figure del mondo culturale che si occupano dei rapporti tra Italia e Repubblica Ceca. Vedremo dove porterà.

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Quale libro consiglieresti a chi vuole iniziare a conoscere meglio questa parte d’Europa, cioè la Repubblica Ceca e la Slovacchia?
Beh, innanzitutto, ovviamente, consiglierei Il secolo breve slovacco di Kosatík, il libro di cui abbiamo parlato finora. Non lasciatevi ingannare dal titolo: è un’opera che racconta anche molto della storia ceca. In realtà, è un libro sull’intera esperienza cecoslovacca, con un focus specifico sulla Slovacchia, ma dentro c’è la storia di entrambi i popoli, intrecciata com’è stata per decenni. È un testo che colma una vera e propria lacuna nel panorama editoriale italiano e, secondo me, è il punto di partenza ideale per chi vuole avvicinarsi a questa parte d’Europa.
Un altro libro che consiglierei, anche perché è disponibile in italiano, è Il potere dei senza potere di Václav Havel (Moc bezmocných in ceco). È un saggio fondamentale, scritto con uno stile lucidissimo e con una penna davvero notevole — e questo lo dico anche da linguista. Havel riesce a spiegare in modo chiarissimo le contraddizioni interne del sistema socialista, e come queste potessero essere smascherate non con la violenza, ma con la logica, l’etica, la coerenza del pensiero.
È proprio da questo tipo di approccio che nasce il concetto di “rivoluzione di velluto”. Havel e gli altri dissidenti approfittarono delle contraddizioni del regime, soprattutto dopo che l’Unione Sovietica, nel tentativo di riabilitarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, firmò gli Accordi di Helsinki nel 1975, impegnandosi formalmente al rispetto dei diritti civili e politici. Peccato che, in patria, le autorità continuassero a perseguitare anche solo dei musicisti — come i Plastic People of the Universe — colpevoli semplicemente di avere i capelli lunghi e suonare una musica “non conforme”. Il potere dei senza potere mostra con chiarezza come sia possibile smontare dall’interno un sistema autoritario, con la sola forza delle idee. È un libro che secondo me aiuta tantissimo a capire l’anima profonda della dissidenza cecoslovacca, e in generale l’identità politica e morale di quel mondo.
Suggerirei anche “Io, esule politico” di Jiří Pelikán, che trovo molto interessante. È uscito in italiano, ed è un’ottima intervista a Pelikán, l’esponente di primo piano della Primavera di Praga, che scelse l’esilio in Italia dopo l’invasione sovietica del 1968. Quest’opera racconta molto bene, dall’interno, cosa accadde durante quel periodo in Cecoslovacchia. È un libro agile, breve, che consiglierei.

di Giovanni Usai

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