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Che fare dei simboli della vittoria sovietica sul nazismo? Quando il mutismo di una statua è troppo loquace

Lo scorso settembre la municipalità di Praga 6 ha deciso di rimuovere da un’area pubblica la statua di un generale sovietico e di ricollocarla, forse, in un museo. La notizia, in superficie, potrebbe sembrare di interesse marginale. È l’iceberg del maresciallo Ivan Stepanovič Konev: sotto il pelo dell’acqua la storia si fa più complicata.

A partire dagli inizi degli anni Novanta la Repubblica Ceca ha rimosso circa 450 statue e monumenti del periodo socialista. Periodi differenti, fastidio del passato, storie ingombranti; può darsi. Gestire la memoria storica tramite gli spazi pubblici è un tema comune, complesso e abbastanza trasversale sia a est che ad ovest di Praga.

Statue indigeste

A giugno 2017 il governo polacco sanciva una legge che dava un anno agli enti locali per sbarazzarsi di qualsiasi opera d’arte sul suolo pubblico volta a celebrare “persone, organizzazioni, eventi o date che esaltano il comunismo”; due mesi dopo erano già 500 le opere demolite o identificate.

In Ucraina, nei mesi successivi alle proteste Euromaidan del 2013, la furia popolare si abbatté, è il caso di dirlo, su oltre cento statue di Lenin sparse per il paese. In Ungheria e Lituania le statue dell’era socialista sono state rimosse ed ammassate in parchi commemorativi. Negli Usa il problema è di più lunga data. Nell’estate del 2017 il rally neofascista di Charlottesville (durante il quale un suprematista bianco si lanciò con la propria macchina su un gruppo di contromanifestanti, uccidendo una donna e ferendo altre 20 persone) riportò nel discorso pubblico la gestione di statue, monumenti e bandiere dei confederati (i “sudisti” della guerra civile americana), oggi simboli dell’estrema destra. A Bruxelles, a due passi dal quartiere che ospita le più alte istituzioni della Ue, la statua equestre di Leopoldo II, il carnefice del Congo, resiste imperterrita. Senza contare che in Italia e Spagna ancora non si è deciso cosa fare dei sepolcri dei propri dittatori, Mussolini e Franco, mete di raduni di nostalgici.

Le terre ceche, con la loro peculiare e spesso sfortunata storia dell’ultimo secolo, hanno avuto a che fare più volte col problema didascalico dei monumenti commemorativi. Dopo la Prima guerra mondiale le statue del vecchio impero austro-ungarico furono sostituite con i nuovi eroi democratici, con grande proliferazione di dediche al primo presidente Tomáš Garrigue Masaryk; questi e altri simboli della Prima Repubblica furono poi demoliti e utilizzati come materiale bellico dai nazisti, o a loro volta sostituiti nel secondo dopoguerra da figure più consone al socialismo. Con casi in cui, dopo la Rivoluzione di Velluto, il vecchio Masaryk tornava a far capolino proprio da dove era stato scacciato – nella cittadina morava di Holešov si racconta che TGM sia stato deposto e reinstallato cinque volte. Ironia della sorte, mentre pubblichiamo questa storia la statua è stata rimossa ancora una volta: ma per lavori alla piazza.

L’ultimo casus belli, la statua del maresciallo Konev, si trova alla confluenza tra questa storia – tra memoria e propaganda – e un racconto diverso della gestione dei beni comuni.

Gloria e caduta del soldato

Dopo più di sei anni di occupazione nazista, e quasi sette dal tradimento delle democrazie occidentali (gli infami patti di Monaco), alle otto del mattino del 9 maggio 1945 la radio annunciava che Praga era stata liberata dall’Armata Rossa. Entrando da nord, dopo aver liberato il campo di concentramento di Terezín, i carri del Primo Fronte Ucraino annullarono la scarsa difesa dei tedeschi, molti dei quali già in fuga dopo i tre giorni di rivolta praghese. Al comando del Primo Fronte Ucraino, che a Praga terminerà la sua guerra, dopo aver liberato Budapest e Vienna e partecipato alla caduta di Berlino, il maresciallo Konev. Foto di quella giornata lo ritraggono su una macchina militare, mentre saluta e posa per foto di rito, circondato dalla folla praghese in giubilo. I sentimenti locali sono poi comprensibilmente cambiati.

Konev è stato, insieme al maresciallo Georgij Žukov (il liberatore di Berlino), il più celebrato dei militari sovietici. I due nomi sono stati per decenni simboli della vittoria sul nazismo, santificati quanto il principe Mikhail Kutuzov, il generale che sconfisse Napoleone – protagonista eterno grazie a Guerra e Pace di Tolstoj. Ma essere una superstar sovietica volle dire anche sporcarsi le mani; Ivan Konev era a capo del Patto di Varsavia quando questi schiacciava la rivoluzione ungherese del ‘56 e a capo del settore sovietico quando a Berlino fu costruito il muro nel ‘61. Secondo la recente targa sotto la sua statua a Praga 6, correzione voluta dall’amministrazione locale nel 2018, egli fu anche dietro la strategia dell’invasione della Cecoslovacchia del 1968 – tale accusa, tuttavia, ha trovato pareri contrastanti tra gli storici, dato che il maresciallo era già in pensione dal ‘63. Non solo: nel 1970 egli rifiutò di recarsi nella Praga ormai normalizzata a ricevere l’onorificenza conferitagli di Eroe della Repubblica Socialista Cecoslovacca. Una presa di distanza, forse di vergogna.

La didascalia originale, datata 1980 come la statua stessa, era considerata troppo celebrativa; eppure oggi la Storia sembra essere tirata per la giacca in direzione opposta.

L’oggetto della discordia

La statua fa bella mostra di sé nel verde di un giardino che si affaccia sulla strada dedicata ai partigiani jugoslavi, in una zona del sesto municipio praghese fortemente marcata dall’architettura di regime; due passi più a nord l’Hotel International, simbolo dello stalinismo. Politicamente il distretto è invece da tempo all’esatto opposto, roccaforte dei liberal-conservatori del Top09. La goccia che ha fatto traboccare il vaso: all’anniversario dell’invasione sovietica del ‘68, il 21 agosto scorso, una secchiata di vernice rossa e la scritta – No al maledetto maresciallo! Non dimentichiamo!

Pochi giorni dopo l’amministrazione di Praga 6, guidata dal sindaco Ondřej Kolář (Top 09), ha annunciato di voler rimuovere la statua. Una decisione così sbrigativa da dare l’impressione che si voglia cavalcare politicamente l’atto vandalico come scusa per confermare una vox populi che detesta ogni simbolo nemico. Trascorso ormai più di un mese, la statua è comunque ancora lì.

La bagarre sulla statua ha creato un prevedibile parapiglia, con scese in campo di difensori non immuni da giudizi storici e civici quantomeno problematici. In prima linea ovviamente i comunisti del Kčsm, nostalgici acritici dei tempi andati. I falchi del Cremlino non hanno tardato a farsi sentire e il ministro russo per la Cultura, Vladimir Medinskij, è arrivato a dare del nazista al sindaco Kolář. Il presidente Miloš Zeman, le cui simpatie filo Mosca non sono certo una novità, è ovviamente intervenuto a difesa della stizza di Putin e del suo entourage.

Comunismo, capitalismo e monumenti

C’è infine un particolare della storia tra la capitale ceca e le statue socialiste; delle 450 sculture rimosse negli ultimi trent’anni, la grande maggioranza non aveva temi politici, propagandistici o didascalici. La disponibilità di arte pubblica si doveva ad una legge nazionale in vigore dal 1965 alla caduta del regime, che obbligava la donazione del 4% dell’investimento per ogni nuovo edificio pubblico ad un’opera volta ad accompagnarlo. Nelle due decadi successive la legge fu alla base di circa 1.200 creazioni negli spazi pubblici, in maggioranza statue e sculture, solo nella capitale. A partire dal 1968 gli artisti che partecipavano ai bandi per le commesse temettero che ogni accenno politico potesse essere sotto speciale scrutinio, e dunque minare le possibilità che il progetto andasse avanti; uffici locali e artisti si accordarono tacitamente verso la neutralità di temi quali famiglia, sport, lavoro, natura e così via. Un’opera su tre a Praga è stata poi demolita dopo la Rivoluzione di Velluto; il fatto poi che la demolizione dell’arte pubblica abbia avuto luogo principalmente nella capitale è un altro fattore che induce a pensare la famelicità del mercato spinga più di possibili moventi politici.

È anche in questo contesto che la rimozione della statua di Konev prende piede. Giustizia è fatta contro i simboli dell’oppressione? Presa di coscienza della comunità, o continua rimozione delle riflessioni cittadine?

Hannah Arendt sosteneva che la storia è un racconto con molti inizi e nessun finale; la realtà dei meriti dell’Armata Rossa per la vittoria sul nazismo pare essersi persa e trasformata, tanto per demeriti sovietici a posteriori, tanto per necessità politiche contemporanee.

di Giuseppe Picheca