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Il ruolo spesso sottaciuto o addirittura misconosciuto che ebbe l’Italia nel 1918 per la indipendenza ceco-slovacca. Ne abbiamo parlato con il giornalista e storico Sergio Tazzer

Groviglio di interessi, speranze, sogni, paure: questa l’Europa che uscì dalla Prima guerra mondiale. Il “grande fantasma” che caratterizzò la pace di Versailles fu proprio l’Impero Austroungarico, ospite assente e convitato di pietra del congresso della pace. L’impero era la costruzione complessa da cui sono nate le cosiddette nazioni danubiane, fra cui appunto la Cecoslovacchia.

L’occasione del Centenario della nascita dello Stato indipendente con capitale Praga, (1918, appunto), ha visto svilupparsi nuovi filoni di ricerca storiografica, intensificarsi il dibattito non solo fra gli studiosi mitteleuropei, anche per la fatale coincidenza con altri due anniversari squisitamente cechi: l’invasione russa dell’agosto 1968 e la conseguente fine della “primavera di Praga”, ma anche il colpo di stato del febbraio 1948, che vide l’affermarsi di un governo comunista al Castello.

Dal punto di vista italiano, le celebrazioni e i festeggiamenti di quest’anno dovrebbero servire proprio per ribadire il ruolo del nostro Paese, dei rapporti intessuti dal governo di Roma e dai politici di allora con i patrioti ceco-slovacchi per arrivare alla nascita del nuovo stato cecoslovacco. Dell’importanza decisiva dell’Italia, ruolo spesso sottaciuto o addirittura misconosciuto.

Fra i diversi studiosi intervenuti nel dibattito, che ha coinvolto anche la capitale slovacca, Bratislava, spicca il ruolo di Sergio Tazzer, giornalista e storico, che da anni si occupa di questi temi. Nel suo volume – Cecoslovacchia e Italia. Cent’anni di Storia (Kellermann editore) – Tazzer descrive dal di dentro progetti, intrighi, speranze di coloro che furono i veri protagonisti di quei mesi in cui friggeva la storia.

“Scappati dai confini dell’Impero, ove rischiavano la fucilazione per tradimento, i patrioti si rifugiarono dapprima nella neutrale Svizzera, poi soprattutto a Roma e Parigi. Anche a Londra, ma in misura minore. Fu da queste capitali che si dipanarono i fili della tela che porterà alla creazione della Cecoslovacchia indipendente” sottolinea Tazzer, il quale da tempo focalizza i suoi studi sui rapporti fra Praga e Roma, ed è appunto sulla base di questi approfondimenti che non ha saputo resistere, di fronte alle troppe semplificazioni e dimenticanze che caratterizzano questo tema, a mettere i classici puntini sulle i.

“In realtà il libro è nato quasi per caso – spiega lo studioso – mentre guardavo un documentario della tv ceca, dedicato ai paesi che contribuirono all’indipendenza cecoslovacca del 1918. C’erano in grande evidenza gli Stati Uniti del presidente Woodrow Wilson, c’era la Francia di Georges Clemenceau, nessuna parola sull’Italia. Ho sentito una sensazione di fastidio, ma mi ha anche fatto riflettere su come spesso il nostro Paese non sappia valorizzare i propri meriti, perdendo e continuando a perdere occasioni storiche”.

Come andarono veramente quei mesi arroventati e decisivi del 1918?

“Intanto bisogna chiarire che fu proprio lo sforzo bellico dell’Italia ad accelerare la fine del conflitto, che tutti gli osservatori prevedevano per la primavera del 1919. L’esercito italiano alla fine di ottobre del 1918 anticipò l’offensiva, provocando il collasso delle forze austro-ungariche, che si ritirarono disordinatamente verso le Alpi e spingendo Vienna ad avviare i preparativi per la richiesta di armistizio. La nascita degli stati danubiani, sulle ceneri dell’Impero austroungarico, venne favorita proprio da quel clima di assoluta confusione. Ma l’Italia, come spesso accade, non seppe condurre il gioco”.

Resta il fatto che i tre protagonisti furono Tomáš Garrigue Masaryk, Milan Rastislav Štefánik ed Edvard Beneš.

“Non c’è dubbio! Però spesso si dimentica che già nel 1915-16, ovvero nel pieno della Prima Guerra Mondiale, alcuni importanti politici italiani avevano stretto rapporti con gli esuli cechi e slovacchi, scappati dai territori dell’Impero. Gli espatriati, lo ripeto, si erano rifugiati prima a Ginevra, poi anche a Roma e Milano, oltreché a Parigi e, molto meno, a Londra. In Italia furono bene accolti, sovvenzionati dai nostri servizi segreti, dotati di armi e sedi per organizzarsi. Fu proprio a Roma che nacque, nel 1917, la Lega Italo-cecoslovacca; fu a Roma che si stamparono i primi giornali dell’irredentismo ceco; fu sempre in Italia che si inquadrarono e addestrarono i patrioti per trasformarli in veri soldati con la costituzione della Legione ceco-slovacca in Italia, e fu sempre nella nostra capitale che si tenne l’affollatissimo Congresso dei Popoli oppressi. Quel raduno fu un vero successo, di cui dovettero tener conto tutte le cancellerie europee”.

Insomma, il Regno d’Italia decise di sposare la causa ceca e slovacca?

“Per certi aspetti sì, ma non tutti i politici condivisero l’idea. Inizialmente maggiori sostenitori furono uomini della Sinistra: Leonida Bissolati, Gaetano Salvemini e Cesare Battisti. Fu proprio il socialista interventista Salvemini a coniare la parola d’ordine “Delenda Austria”, vale a dire la fine della monarchia asburgica e la formazione di nuovi Stati nell’Europa centro-orientale e sud-orientale sulla base del principio di nazionalità. Altri politici restarono più freddi. Fu il caso del nostro ministro degli Esteri, il conservatore Sidney Sonnino. Malgrado la Guerra, Sonnino considerava l’Impero Austroungarico come elemento di stabilità della nuova Europa che stava nascendo. Un errore di prospettiva che poi pagheremo caro, al tavolo della pace”.

E dopo la fine delle ostilità come si manifestò il sostegno italiano?

“Quando si forma il primo governo cecoslovacco, a Praga non esiste una vera formazione militare che difenda il nuovo governo: a fornirla sono proprio gli italiani, che nel frattempo avevano inquadrato e armato la Legione cecoslovacca del generale Luigi Piccione. E da Padova, dove era acquartierata, la Legione viene mandata a Praga su treni italiani, sotto scorta armata italiana. Nel frattempo, in Francia, gli esuli cechi sono ancora abbandonati a se stessi, mentre il governo di Parigi non ha ancora deciso ufficialmente la propria posizione. Una differenza netta di atteggiamenti che oggi si dimentica troppo facilmente”.

Qual era l’uomo più legato all’Italia, in quel momento?

“Decisamente Milan Rastislav Štefánik. Era uno slovacco, fautore della nascita di uno stato federalista. Ma Štefánik morirà in un misterioso incidente aereo nell’aeroporto di Bratislava, aeroporto che oggi porta il suo nome. E a prevalere sarà l’ipotesi centralista proposta da Edvard Beneš. Uomo molto più vicino alle posizioni e agli interessi francesi, Beneš diventerà l’acclamato “padre della patria”, e stringerà sempre più il legame con Parigi”.

La celebre differenza fra “Cecoslovacchia” e “Ceco-Slovacchia”: spesso, però, il lettore comune non capisce la sfumatura.

“Che invece resta decisiva – insiste Tazzer. – Dietro quel trattino si intravedono due profonde visioni nel concepire il nuovo Stato. L’una, fa riferimento solo a Praga, e sottolinea quindi il centralismo bonapartista; l’altra, pensa invece a uno stato federale, frutto dell’alleanza “paritaria” fra due popoli, quello ceco e quello slovacco. Spesso sottaciute, se non cancellate, queste due tendenze riemergeranno prepotenti nei diversi momenti della storia del Paese”.

Cosa ci insegna, come italiani, la vicenda cecoslovacca?

“Intanto, fa capire come spesso siano ragioni economiche a prevalere su quelle ideali: la Francia era già una grande potenza, e decise al momento giusto, di apparire come la madrina dei popoli danubiani, ma lo fece con tutti i mezzi che aveva a disposizione, compresa una politica di forte colleganza culturale. Noi mettemmo nella causa ceca molta buona volontà e impegno. Doti che però, alla resa dei conti, non furono sufficienti a farci figurare come veri protagonisti”.

di Ernesto Massimetti