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In visita nella Cattedrale dei Santi Cirillo e Metodio di Praga, luogo simbolo della Resistenza cecoslovacca contro gli invasori nazisti

A differenza di diverse chiese storiche di Praga, l’ingresso in quella ortodossa di Cirillo e Metodio è gratuito: un invito – o uno stimolo – a scoprire il luogo che ospitò nel 1942 un evento cruciale nella Cecoslovacchia smembrata e occupata dai nazisti. La cattedrale è nota soprattutto per la cripta, il suo cuore sotterraneo, che, a differenza di quella imperiale di Vienna o dell’Escorial a Madrid, non porta con sé il ricordo di re o imperatori.

Siamo sulla Na Zderaze, all’incrocio con la Resslova, a metà strada fra il lungofiume e Karlovo náměstí. Ai piedi delle scale che portano all’ingresso della basilica, c’è un portone dal quale si accede in una cappella sotterranea oggi trasformata in un museo che ricorda le atrocità perpetrate nei territori cechi durante la Seconda guerra mondiale. Una serie di pannelli ne ripercorre tutte le tappe: dalla conferenza di Monaco e la annessione dei Sudeti del 1938, al diktat hitleriano del 1939, quando il Führer ricevette il presidente Emil Hácha a Berlino annunciando l’invasione del paese, la nascita del Protettorato di Boemia e Moravia.

Colui che sarebbe passato alla storia come il “boia di Praga” – il temutissimo Reinhard Heydrich, giovane e potente dirigente nazista, secondo solo a Heinrich Himmler nella gerarchia delle SS – arrivò a Praga come capo del Protettorato nella primavera del 1941, in sostituzione di Konstantin von Neurath, considerato da Berlino troppo morbido.

Simbolo perfetto dell’ideale di razza ariana, Heydrich – biondo, alto, germanico, sposato con figli e spietato – aveva avuto un posto di “onore” nell’ideazione materiale della Soluzione finale, nell’ambito della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942. Era un simbolo. Il Führer adorava la “Bestia bionda”, ricevendone in cambio una fedeltà assoluta. E in effetti Heydrich si distinse per la ferocia con cui interpretò il ruolo di governatore di Boemia e Moravia, con una numerosa serie di uccisioni non solo di oppositori, ma anche di cittadini innocenti.

Fu per questo motivo che nel governo cecoslovacco in esilio a Londra nacque il piano di dare una risposta militare e di pianificare la cosiddetta Operazione Anthropoid, diretta a eliminare Heydrich. Anthropoid in greco significa “dall’aspetto umano”, in tal modo volendosi rimarcare la disumanità del Reichsprotektor.

Per compiere l’azione venne scelto un gruppetto di sette giovani militari cecoslovacchi, rifugiatisi in Gran Bretagna, che vennero addestrati in Scozia dalla Royal Air Force, per poi essere paracadutati in Boemia.

Il compito decisivo di uccidere la “Bestia bionda” fu affidato ai caporalmaggiori Jan Kubiš e Jozef Gabčík, i quali portarono a segno la missione, il 27 maggio 1942. I due tesero il loro agguato a Heydrich nella periferia nord di Praga, mentre il Reichsprotektor a bordo di una Mercedes-Benz decapottabile, guidata da un autista, si dirigeva – come faceva ogni mattina – verso il suo ufficio al Castello.

I due, con i loro compagni, riuscirono per alcune settimane a sottrarsi alla caccia all’uomo dei tedeschi, finendo per trovare rifugio proprio nella cripta di San Cirillo e Metodio. A tradirli – mentre nel paese si scatenava la terribile rappresaglia nazista, che culminò con la distruzione del villaggio di Lidice e l’eccidio dei suoi abitanti – fu un loro commilitone, Karel Čurda, anch’egli membro dell’esercito cecoslovacco in esilio, paracadutato in patria dagli inglesi per sostenere la resistenza, il quale alla fine andò a riferire ai tedeschi il nascondiglio dei compagni in cambio di una cospicua ricompensa in denaro.

Una volta scoperti, Kubiš e Gabčík, insieme ai loro quattro commilitoni (Adolf Opálka, Jaroslav Švarc, Josef Bublík, Jan Hrubý e Josef Valčík), ingaggiarono una strenua resistenza durata diverse ore contro i tedeschi, un migliaio di SS che nel frattempo avevano circondato la cripta, ma alla fine non ci fu nulla da fare: tre di loro morirono armi in pugno, altri quattro si suicidarono, preferendo questa fine alla cattura.

Ancora oggi, sulla Resslova, i colpi dei mitragliatori tedeschi sono visibili sulla fiancata di destra, all’esterno della cattedrale, dove settimanalmente, a quasi ottant’anni dai fatti, corone di fiori e lumini vengono riposti alla memoria degli eroi cecoslovacchi a un metro dai sanpietrini rosa e bianchi che, sul marciapiede, compongono la cifra 1942.

Nel museo l’angoscia è palpabile, non solo attraverso il composto di storia e immagini che ripercorrono gli eventi legati alla cripta (c’è pure una piccola sala cinema all’entrata), ma anche attraverso oggetti appartenuti ai giovani combattenti e persino una riproduzione fedele della bomba che scagliarono contro la Mercedes di Heydrich.

Il piccolo museo sotto la chiesa di Cirillo e Metodio è, in un certo senso, una continuazione del luogo religioso soprastante, in primo luogo perché vi è prescritto il silenzio, atto ad onorare i caduti che, all’interno della cripta, resistettero fino all’ultimo uomo. L’impressione che se ne ricava è di essere veramente dentro la Storia, se non altro perché entrarvi significa rivivere le emozioni di speranza e infine di paura di quanti, segretamente, si celarono al suo interno nel giugno del 1942.

Metaforico e denso di significato è l’accesso alla cripta, dove ci si sente davvero come in una trappola, vittime della claustrofobia e della paura. La porta stessa è come un punto di non ritorno, la divisione tra un mondo e l’altro. Alle spalle, nella sezione museale, la libertà; di fronte, la prigionia.

Umida e scura, la cripta dà su un lungo corridoio che termina ai piedi di una scala che porta nell’abside della chiesa. L’ingresso secondario – quello alla fine utilizzato dai nazisti per penetrarvi – venne ostruito da Kubiš e compagni con una pesante lastra di marmo, oggi disposta ai piedi della scala.

Nonostante il vortice di sentimenti, nel sotterraneo della cattedrale di Cirillo e Metodio si respira veramente un’aria di sacralità, un’atmosfera a metà tra misticismo e angoscia, messa in risalto da una luce dorata e soffusa. È una perfetta armonia quella tra l’abbaino che dà sulla Resslova, dal quale penetrano fragili spiragli di luci, e le lampadine che illuminano i busti di bronzo degli eroici paracadutisti, ricordati uno ad uno nella loro breve biografia incisa in una lastra di marmo scuro.

Alla base di ciascun monumento una corona di fiori, ormai appassiti, essendo trascorsi mesi dall’ultima commemorazione dello scorso giugno. È chiaro però che da quella lontana estate del 1942 non sono appassiti i fiori della libertà sbocciati dalla Resistenza ceca. Per il resto, fiori, nastrini repubblicani, fotografie e lumicini che resistono al freddo sotterraneo della chiesa e al tempo, per ricordare per sempre il sacrificio di quel pugno di uomini che seppero da che parte stare. Dalla parte della libertà.

di Amedeo Gasparini