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La rivoluzione del novembre 1989 portò la Cecoslovacchia nel delicato territorio della transizione democratica. Ne uscì divisa, ma con un sospiro di sollievo

Rimangono delle ombre, ma nel ventaglio di opzioni possibili (ed imprevedibili) questa è stata, e deve essere ricordata, come una rivoluzione fortunata

A distanza di 25 anni, il novembre 1989 non fa più paura: tutto è bene ciò che finisce bene! Perché mai avrebbe dovuto far paura? Una parola su tutte: l’imprevedibilità. Imprevedibilità della fine di un sistema oliato, di routine, così efficace nel cristallizzare la vita dei suoi abitanti che quasi nessuno (un “quasi” ristretto tra sognatori e volpi in agguato) aveva in mente un capodanno 1990 così diverso da quello appena trascorso.

Imprevedibilità della fine di un progetto-casa, di un ordine definito, per quanto terribilmente stretto. Centinaia di chilometri più a sud, la stessa imprevedibilità (lo stesso 1989) ebbe conseguenze tragiche. Lo sa bene chi a Sarajevo si godeva qualche anno prima, in una cornice “tuttavia” comunista, le olimpiadi invernali del 1984: ecco, la città simbolo della secolare convivenza pacifica tra culture diverse. Un fantomatico conflitto tra slovacchi e cechi, avrebbe forse scatenato meno sorpresa di quella dipinta sui volti bosniaci ai primi colpi di mortaio?

Balcani e mitteleuropa, oggi così diversi, un tempo più vicini. Jugoslavia e Cecoslovacchia, stati multi-etnici, nati dalla pace di Versailles e dalla fine dell’impero austro-ungarico. Entrambi segnati fortemente dal secondo conflitto mondiale e dal dividi et impera del nazifascismo: così come, spinto da sentimenti di rivalsa verso la maggioranza serba, nacque lo stato-fantoccio di Ante Pavelić tra l’attuale Croazia e parte della Bosnia-Erzegovina, così il Quisling cecoslovacco si chiamava Jozef Tiso, il sacerdote cattolico che si incoronò presidente della Slovacchia tra ‘39 e ‘45, e finì impiccato.

Le efferatezze compiute dagli Ustaša croati contro i “fratelli” serbi, le cui ferite riemersero nei terribili anni Novanta, non hanno paragone: tuttavia non bisogna cadere nella trappola di considerare un autoritarismo da quattro soldi quello del regime slovacco.

Amaro esempio: dei 58 mila ebrei slovacchi spediti nei campi nazisti nel 1942, ne rientrarono solo 300. Per quanto riguarda i cechi sotto la nuova giurisdizione di Bratislava, oltre 100 mila residenti furono espulsi dal Paese ed i loro beni confiscati. La storia è raccontata in un lavoro pubblicato nel 2002 dall’Università di Cambridge intitolato “Understanding ethnic violence”, e che include un capitolo sulle relazioni tra cechi e slovacchi: non sempre così rosee come siamo abituati a pensare.

La pax romana comunista mise a tacere, tanto a nord quanto a sud, i dissidi interni, forzando un apparente oblio dei crimini passati. Ma il nazionalismo si muove secondo logiche politiche: chi, e in che modo, avrebbe puntato sulle differenze etniche per giochi di potere, una volta fallito il regime?

Era la fine 1989 e la Cecoslovacchia aspettava. Il comunismo era già caduto in Polonia e Ungheria, ma furono gli eventi a Berlino Est che diedero la spinta decisiva: il 9 novembre cadeva il muro, il 17 iniziava finalmente la Rivoluzione di Velluto. In pochi giorni le istituzioni comuniste si arrendevano alle dimostrazioni: nel giro di un mese i leader delle proteste erano nominati ai posti di comando, in una maniera piuttosto sbrigativa ma efficace. Alexander Dubček, indimenticato eroe del 1968, diveniva Presidente del Parlamento e poco dopo Václav Havel, il firmatario numero uno di Charta 77, Presidente della Repubblica.
Era, ovviamente, una situazione transitoria. La transizione nell’incognito è (in ogni rivoluzione) un momento estremamente delicato. La caduta del muro era la caduta dei regimi comunisti europei, una chiamata per la democrazia partecipativa e liberale: in una parola, elezioni. Come creare una nuova élite? Su che basi? C’era bisogno che qualcuno si presentasse di fronte agli elettori, con un motivo politico. Un momento cruciale. Il momento di crisi in cui i nazionalismi dicono agli elettori: noi siamo un gruppo, loro sono gli estranei. Il momento in cui si soffia sul fuoco degli antichi rancori.

Pochi mesi fa, in primavera 2014, l’ex Presidente della Slovacchia Ivan Gašparovič ha ricevuto una medaglia d’oro dall’Università Carlo IV di Praga per i suoi “sforzi per lo sviluppo della cooperazione e della comprensione tra le nazioni”. Nonostante l’ovvietà odierna dei rapporti pacifici tra i due Paesi, Gašparovič ha tenuto a sottolineare il sollievo e la gioia che le paure per la divisione non trovarono riscontro nelle piazze. Le sue parole possiamo trattarle con leggerezza, finanche nei termini delle banalità diplomatiche, ma soffermandoci un attimo (il tema degli anniversari: soffermarsi) ci rendiamo conto che il Divorzio di Velluto è un momento prezioso della storia recente europea.
Soprattutto nella cornice attuale, in cui la scena continentale è piena di separazioni, reali o auspicate, violente e non: Scozia, Ucraina, Catalogna, Ucraina, Belgio, Paesi Baschi, Georgia, Moldavia solo nella più stretta contemporaneità. Dove trovare il merito, o la fortuna, cecoslovacca?

Uno dei motivi (benché nulla possa essere esaustivo in situazioni di tale complessità) risale proprio all’autunno 1989. Nel turbine della transizione niente crea unione più facilmente che trovare un nemico comune. Le scienze sociali chiamano il fenomeno “othering”, dall’inglese “other”, “altro”, ovvero si crea un movimento in opposizione all’elemento estraneo. Il nemico: così utile nei momenti in cui a qualcuno si deve pur dar la colpa, ma senza mettersi troppo in gioco. Così la Cecoslovacchia lo trovò nel “comunismo”; più che nel regime, che era fatto e sostenuto da una maggioranza inerte troppo grande per essere accusata, il nemico era l’idea. Si arrivò così a dedurre che questo male era stato imposto da un fattore esterno al popolo cecoslovacco: dall’Est, dall’Unione Sovietica. Di fatti molti commentatori dell’epoca parlarono di “ritorno all’Europa” di Praga, tornare a casa, alle vere origini.

Un movimento che rimuoveva alcuni passi storici (come il fervore con cui i cecoslovacchi abbracciarono il socialismo alle elezioni del 1946), ma estremamente efficace. In tal modo il Paese riuscì a minimizzare i dissidi interni, puntando decisamente ai sovietici come gli untori di tale malattia.

Giudicare un popolo sarebbe stato folle, così come annullare totalmente una possibile classe dirigente. Annacquare le responsabilità calmò le acque, al punto da gestire lo scontro tra i due gruppi nazionali con delicatezza, con un tocco, per l’appunto, di velluto. Rimangono delle ombre, ma nel ventaglio di opzioni possibili (ed imprevedibili) questa è stata, e deve essere ricordata, come una rivoluzione fortunata: la fortuna, quindi, di avere un capro espiatorio!

Il movimento entusiasta contro Mosca ed il passato, con un briciolo di confusione sul presente, si leggerà nel discorso alla nazione per il capodanno del 1991 pronunciato da Havel presidente “Abbiamo sconfitto il monolitico, visibile e chiaramente identificabile nemico ed ora – guidati dal nostro scontento e dalla necessità di trovare un colpevole vivente – cerchiamo il nemico tra noi stessi”; poco dopo, “La nostra società è ancora in stato di shock”.

Guardando ancora alla divisione cecoslovacca negli occhi di un osservatore “jugoslavo”, possiamo notare l’assenza di questa “fortuna”. La purificazione praghese non fu possibile in Jugoslavia, dove da quarant’anni il governo era in forte contrasto con il Cremlino. A Belgrado non c’erano “uomini di Mosca” né imposizioni sovietiche. In nessun modo si poté placare l’ascesa degli antagonismi interni se non con la terribile distruzione dello Stato stesso.

Potremmo dire che la vignetta satirica apparsa tempo fa sul magazine Respekt (dicembre 2012), con Václav Klaus e Vladimír Mečiar, politici sponsor delle rispettive fazioni (nazioni!), che si dividono la Cecoslovacchia in maniera non solo arbitraria, ma quasi infantile – “No, la Cechia la prendo io, l’ho detto prima” dice Klaus – ricorda una divisione creata ad hoc, poco democratica, forzata: ma un impiccio che, meglio di così, non poteva finire.

di Giuseppe Picheca