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La storia di Josef Mysliveček, compositore ceco del Settecento che fece dell’Italia la sua patria adottiva

“Egli trasuda fuoco, spirito e vitalità”, diceva Mozart dell’amico Josef Mysliveček. Questo il nome anagrafico, buono per gli annali: per la storia e per il grande pubblico, quello che è oggi considerato come uno dei più grandi compositori cechi del XVIII secolo, era semplicemente il “divino Boemo”.

Il viaggiatore, l’amante, l’artista. L’italiano d’adozione. Una vita di successi e d’erranza, passando per corti aristocratiche e teatri stracolmi. Una parabola dai toni epici, “l’ascesa e la caduta di un artista straordinario”, per riprendere le parole del regista Petr Václav, che porterà l’anno prossimo le avventure del compositore sul grande schermo. Ne riparleremo.

Ora, riavvolgiamo il nastro e torniamo alla Praga del XVIII secolo. È qui che nel marzo 1737 nasce Josef Mysliveček. Figlio di un ricco mugnaio, riceve con il fratello gemello Joachin i primi rudimenti di educazione musicale presso la scuola pubblica locale. Dopo una breve parentesi nel corso della quale prende in mano l’attività dei genitori insieme al fratello, Josef decide di abbandonare il sentiero battuto, l’attività familiare, quel destino già scritto. Si apre per lui la stagione dell’apprendistato dell’arte musicale: trova un’occupazione da violinista presso il coro di una chiesa e comincia a studiare l’organo e la composizione. Ma ben presto anche la Città d’Oro gli sta stretta, la sua ambizione lo spinge altrove. Il giovane Josef si dirige verso altri orizzonti per sviluppare pienamente il suo talento in erba. Così, grazie al sostegno del conte Jan Václav Šporek e a un prestito dai benedettini del convento di Břevnov, riesce a recarsi per la prima volta in Italia il 5 novembre 1763. Un Paese che è, alla fine del Settecento, la Mecca della musica: qui arrivano artisti e compositori da tutta Europa in cerca di successo. È una svolta, una rivelazione, un nuovo destino da scrivere sullo spartito.

Un anno dopo il suo arrivo, Mysliveček mette in scena a Parma la sua prima opera: Medea, che riscuote uno straordinario successo. Una prova del fuoco questa: la città emiliana è da sempre una piazza di melomani, nota e temuta da compositori e cantanti. Solo un anno dopo è la volta della Semiramide, che va in scena a Bergamo. Il compositore boemo non smette di errare, di commessa in commessa, di teatro in teatro, di consacrazione in consacrazione. Il 1766 è l’anno di Napoli, allora una vera e propria Hollywood del teatro musicale, probabilmente il più grande centro produttivo operistico del mondo. Lì l’impresario del Teatro San Carlo, Giovanni Tedeschi, detto l’Amadoril, lo incarica di musicare il libretto Bellerofonte di Giuseppe Bonecchi. L’opera è rappresentata il 20 gennaio 1767 e riceve moltissimi consensi, tanto che di lì a poco Mysliveček decide di metterne in scena un’altra, Farnace, che il 4 novembre 1767 ha un egual successo nella città partenopea. Questi trionfi portano Mysliveček a essere conosciuto e apprezzato in tutta Italia: da allora prenderà il nome di “divino Boemo”. Ma l’“italianizzazione” dell’operista praghese si fa ancora più esplicita quando comincia a essere conosciuto come Giuseppe Venatorini: il cognome è la traduzione (al plurale) della parola ceca Mysliveček, che significa cacciatorino, “venatorino”.

Negli anni seguenti le sue opere vanno in scena nei maggiori teatri italiani: Venezia, Padova e Firenze. Nel maggio del 1771 l’Accademia Filarmonica di Bologna lo corona con il prestigioso titolo accademico filarmonico. Ed è proprio nel capoluogo emiliano che il Boemo incrocia il suo cammino con quello del giovane Wolfgang Amadeus Mozart. Un incontro che è una rivelazione. L’austriaco diventa un fervido ammiratore del compositore praghese, tanto che la sua musica avrà una profonda influenza sui suoi lavori giovanili. Secondo il critico Robert Newman fu il boemo a scrivere alcune composizioni degli anni settanta del ‘700 oggi attribuite a Mozart, tra le quali i primi concerti per violino, KV 207-211-216, e l’opera Betulia liberata, KV 118/74c. I due musicisti sono uniti dall’arte e da una solida amicizia. Tanto che quando Mysliveček comincia a mostrare i primi sintomi di una non ben specificata malattia che poi lo porterà alla morte, Mozart lo visita all’ospedale e ne parla col padre.

La natura della malattia del “divino Boemo” non è chiara, anche se molti commentatori pensano si trattasse di sifilide. Mysliveček, sappiamo, praticava una vita dai costumi assai liberi. Secondo altre fonti invece, e una lettera scritta dal compositore boemo a Mozart lo confermerebbe, Mysliveček avrebbe sofferto di una paralisi facciale deformante, dovuta a sciagurati interventi medici su una ferita riportata nel ribaltamento del calesse su cui viaggiava. “Lei è troppo sensibile al mio male, io la ringrazio del suo buon cuore. Non si pigli tanto a cuore la mia disgrazia. Il principio fu d’una ribaltata di calesse, poi sono capitato nelle mani dei dottori ignoranti, pazienza. Sarà quel che Dio vorrà”.

Una storia d’ascesa e caduta, di gloria e miseria: così, quello che per anni era stato la stella più brillante del firmamento della musica classica in Italia, muore solo e in miseria, a Roma, nel febbraio del 1781. Qui, un misterioso mecenate inglese, forse un suo vecchio allievo, salvò le sue spoglie dalla fossa comune pagandogli una tomba nella Chiesa di San Lorenzo in Lucina, che non è sopravvissuta al tempo.

La fine di Mysliveček non ha più niente di “divino”, la sua stagione musicale era sfiorita, conclusa da due ultimi fiaschi romani: le opere Medonte e Antigono. Ma una cosa è certa: egli ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’opera, parlando un linguaggio musicale tutto italiano. Il suo destino e il nostro Paese sono legati a filo doppio.

Come compositore spaziò al di fuori dell’ambito lirico scrivendo sinfonie, concerti, ouverture e musica da camera, sonate per violino e musica per tastiera. Non tralasciò nemmeno il campo dei lavori sacri: compose messe, salmi e oratori. Tuttavia, nonostante questo repertorio, sia lui sia la sua musica furono quasi completamente dimenticati nei secoli successivi. Fino a poco tempo fa quando la sua vita straordinaria ha ispirato la scrittura di una pellicola storica, “Il Boemo”, che sarà disponibile nelle sale dal 2020. Alla regia Petr Václav, pluripremiato regista ceco trapiantato in Francia. “Il nostro obiettivo è aiutare le persone a riscoprire un compositore ingiustamente dimenticato e la sua straordinaria musica attraverso la storia di un nativo di Praga che fiorì artisticamente a Napoli e nel Nord Italia”.

Nel 2009, Petr Václav aveva deciso di riscoprire la musica di Mysliveček e la sua storia attraverso testi e manoscritti del tempo. Un lavoro che ha avuto come risultato, sei anni dopo, un primo documentario sul musicista boemo: Zpověď zapomenutého (Confessioni di un dimenticato). Václav cercherà di restituire la storia di Mysliveček rispettando il più possibile la biografia dell’uomo diventato “divino”: “Il film racconta la storia di questo grande artista a cui l’Italia ha dato tutto, immaginando quei passaggi della sua vita andati perduti attraverso i fatti storici, con l’intento di ricostruire fedelmente lo spirito del suo tempo e la ricchezza dell’Italia che a quell’epoca fiorisce di corti e repubbliche desiderose di eccellere”. Václav cita Barry Lyndon di Stanley Kubrick e Amadeus di Miloš Forman come riferimenti cinematografici particolari. Dai teatri al cinema, la storia di questo musicista fuori dal comune ha tutti gli elementi per essere la nuova sinfonia divina del cinema ceco.

di Edoardo Malvenuti