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La storia di Otakar Švec, autore del colossale monumento che atterrì Praga durante gli anni più duri del regime. Una vicenda tragica, legata a filo doppio con quella infausta di quel periodo e della statua

Il volto scolpito di Stalin è tornato a maggio a intimorire Praga, ma appena per pochi giorni e solo per girare un film. Sono state infatti esigenze cinematografiche, non apologetiche, a far riapparire – dall’alto dei giardini di Letná – un colosso di un’epoca finita. Funesta.

A più di cinquant’anni dalla prima posa, una maquette in materiale sintetico ha reincarnato la più grande statua di Stalin mai costruita in tutto il mondo e inaugurata a Praga nel 1955. Il volto del dittatore tra le impalcature è stata una ricostruzione utile alla televisione ceca che sta girando Il mostro, un film che ripercorre la tragica vicenda di Otakar Švec, autore del gruppo statuario, la cui sorte è legata a filo doppio con quella di quel monumento austero, smisurato, dal destino corto e infausto.

Allora furono necessarie ventimila tonnellate di realismo socialista per celebrare il leader dell’Unione Sovietica e mostrare che il governo cecoslovacco era quanto mai fedele alla linea di Mosca.

Arrivato al potere nel 1948 il Partito Comunista indice, l’anno successivo, un concorso per la costruzione di un grande monumento che raffiguri Iosif Stalin e i tipi umani della società a falce e martello. Un’opera da collocare sulla collina che domina la Moldava, lo sguardo posato sul cuore della capitale cecoslovacca. All’epoca Švec non è certo uno sconosciuto, diverse sue sculture sono sparse per la città, mentre i nazisti durante l’occupazione hanno distrutto le sue raffigurazioni di due eroi nazionali, Jan Hus e Tomáš G. Masaryk. La sua opera più famosa è la “motocicletta Sunbeam”, una scultura futurista, oggi esposta alla galleria nazionale di Praga.

La sua partecipazione al concorso per la costruzione del monumento è poco convinta, le sue possibilità ridotte. Ma partecipare è praticamente un obbligo per tutti i grandi artisti dell’epoca. Ce ne sono ben più blasonati e favoriti di Švec, ma soprattutto si sospetta che il vincitore sia stato già deciso “politicamente”.

Il favorito è Karel Pokorný, allora lo scultore cecoslovacco più in vista, che però non otterrà l’incarico perché il suo Stalin disegnato con le braccia spalancate non entusiasma il comitato incaricato della decisione finale.

Così, quasi per caso, Otakar Švec si aggiudica il lavoro: ma quella che si presenta come un’occasione di gloria si trasformerà, nei fatti, nella sua rovina. Il suo disegno raffigura il dittatore sovietico con una mano sul cuore e l’altra stretta intorno ad un libro. Dietro di lui, in linea, gli archetipi della società sovietica: il lavoratore, l’agricoltore, una donna del Partito e un soldato. Un’allegoria dall’aura quasi religiosa.

L’enorme investimento, così come la portata simbolica del monumento, sono certamente le ragioni della pressione della commissione sullo scultore che ha ottenuto l’incarico: prima dell’inizio dei lavori il progetto passa attraverso innumerevoli proposte di revisione, come quella insistente che vuole che la figura di Stalin debba smarcarsi in altezza rispetto al suo seguito.

Solo nel febbraio 1952 la costruzione può iniziare: la cima della collina di Letná è appiattita per lasciare spazio agli scavi delle fondamenta. Trentamila pezzi di granito sono scolpiti e assemblati, più di 600 persone, tra scultori e operai sono impegnati sul progetto. Nel frattempo, il culto della personalità comunista si trova senza più il suo punto di riferimento in carne ed ossa: Iosif Stalin muore, mentre i lavori sono in corso, il 5 marzo del 1953. Nove giorni dopo anche il Primo Segretario del Partito cecoslovacco, Klement Gottwald, viene a mancare.

Tuttavia l’opera va avanti, sulla spinta delle grandi ondate di lamento funebre per il colosso politico, che si levano – è d’obbligo! – alte e stentoree in tutto il mondo socialista.

Švec, però, è sempre più isolato: da una parte il milieu artistico è critico nei confronti della sua creazione, dall’altra il Partito supervisiona ossessionatamene la realizzazione del progetto e il suo lavoro. Ma il vero momento di non ritorno per Otakar Švec è il suicidio della moglie Vlasta, un anno dopo l’inizio dei lavori. Da allora l’artista cecoslovacco scivola in una spirale di depressione e ossessione. Come riportato dal giornalista polacco Mariusz Szczygieł nel suo libro Gottland, Švec avrebbe confidato ad un amico, un certo Dr. Dvořák, che la moglie, avvelenandosi, aveva fatto “una cosa giusta” e che a quel punto “non era più importante esserci per l’inaugurazione del monumento dal momento che lei non c’era più”. Sempre Švec avrebbe confidato a Dvořák altre frustrazioni: non essere riuscito ad ottenere il posto di professore e non avere ricevuto nessun premio statale. In più, avrebbe detto alla sua governante che il ministro Kopecký, incaricato di seguire il progetto del monumento di Stalin, era arrivato, per ragioni non chiare, a disinteressarsi di lui e persino ad odiarlo.

Mentre la realizzazione dell’opera volge al termine il suo ideatore vive una spirale di disgrazia. Un aneddoto, colorato di leggenda, vuole che un taxista abbia fatto notare a Otakar Švec, che gli aveva chiesto in incognito un parere sul monumento, come la statua della donna avesse la mano posata sulle parti intime del soldato dietro di lei e che l’autore sarebbe stato certamente giustiziato dopo l’inaugurazione. A questo punto la storia ufficiale sfuma, s’aggroviglia al mistero: c’è chi dice che Švec si sia suicidato la notte prima dell’inaugurazione del monumento avvenuta il 1 maggio 1955. In realtà lo scultore sarebbe morto suicida circa un paio di mesi prima, il 3 marzo, data dell’ultima lettera dove Švec dice di volere seguire la moglie scomparsa senza specificare più precisamente le ragioni del suo gesto. Sulla statua non resterà nemmeno il suo nome, quando sarà svelata porterà la firma del popolo cecoslovacco: anche la memoria è cancellata, come nelle migliori tradizioni di regime. Ma l’ombra di sfortuna sotto la figura di Stalin non si sarà mangiata solo il suo autore: l’elettricista che aveva posato come modello per dargli un volto, un tecnico degli studi cinematografici Barrandov, morirà solo tre anni dopo ucciso dall’abuso d’alcol.

Infine è la statua stessa a soccombere alla sua maledizione. Quel monumento che per scherno era stato presto soprannominato “Fila per la carne”, per ironizzare sulle penurie alimentari dell’epoca, resisterà solo sette anni: fino al 1962. E probabilmente sarebbe durato anche meno, se non si fosse trovato proprio in Cecoslovacchia. Il crollo del mito del georgiano, a seguito della rivelazione dei crimini staliniani da parte del Primo Segretario sovietico Nikita Chruščëv, parte già nel 1956, nel celebre XX congresso del Partito Comunista dell’Urss. Novità inaspettata che crea scossoni violenti nell’Europa socialista, basti pensare ai moti polacchi e alla rivolta ungherese dello stesso anno.

A Praga la destalinizzazione arriva invece gradualmente, riuscendo a scaricare le colpe dello stalinismo sul compagno Gottwald, morto e sepolto. Lo stesso segretario del Partito, Antonín Novotný, mantiene inizialmente un rapporto piuttosto freddo con la nuova segreteria sovietica: insomma, passano più anni del previsto finché il clima più aperto dei primi anni Sessanta rende l’immagine definitivamente sgradita e insopportabile.

Girato il vento della storia anche il suo simbolo deve sparire: la statua sarà fatta brillare alla dinamite in una mattina di novembre. C’è chi racconta che la testa di Stalin sia caduta dopo la prima esplosione, rotolando giù, per scomparire nelle acque della Moldava. Per riapparire solo più di cinquant’anni dopo, e ristabilire, il tempo di un film, la storia di un’epoca sciagurata, e dello scultore morto nel celebrarne il mito.

di Edoardo Malvenuti