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In Repubblica Ceca torna in prima pagina sui quotidiani, riempie telegiornali e siti internet. Fa discutere politici ed opinionisti. Il quesito è semplice: cosa dobbiamo aspettarci?

Il nazionalismo riprende vigore in un momento non casuale. In un’atmosfera già viziata e appesantita dalla crisi economica l’occasione di uscire allo scoperto la offre l’acutizzarsi di un male che cova nella Repubblica da anni: la problematica convivenza tra maggioranza ceca e minoranza Rom.
In un Paese in cui l’immigrazione non è certo un problema fuori controllo, sia nelle file dell’estrema destra che in una fetta crescente di popolazione è evidente il serpeggiare di una xenofobia atipica e unidirezionale. Il bersaglio sono i circa 200,000 Rom che vivono nella Repubblica – circa il 2% dell’intera popolazione – la cui integrazione con la maggioranza si allontana sempre di più.
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Una situazione da tempo problematica quella degli zingari Repubblica Ceca, aggravatasi a partire dal’89 con la fine del lavoro obbligatorio imposto dal regime. Una difficile convivenze ora straripata in marce settimanali antirom sia nella regione di Ústí nad Labem che nella capitale. Queste manifestazioni sono l’estrema conseguenza ad una escalation di episodi di microcriminalità e violenze a danno della maggioranza locale nei paesi di Varnsdorf, Novy Bor e Rumbark. Stando alle contumelie esasperate dei cittadini, taccheggi, furti, vandalismi e aggressioni sono ormai all’ordine del giorno.

La situazione è degenerata tra agosto e settembre. Da allora in questi villaggi dei Sudeti si susseguono assembramenti numerosi, compatti, spesso capitanati da esponenti del Dělnická strana socialni spravedlnosti (Dsss), o partito dei Lavoratori della giustizia sociale, “l’unica formazione nazionalista ceca”, almeno così la descrive il leader praghese Jiří Petřivalský.

Erano loro a guidare le marce di Varnsdorf: striscioni alla mano, cori feroci. Ma sarebbe fuorviante pensare a raduni di soli militanti: la gran parte dei partecipanti erano normali cittadini frustrati da una situazione che si ostinano a definire non più sostenibile.

Ben diversa è l’atmosfera intorno al tavolo di un bar vicino piazza Venceslao. Qui abbiamo incontrato Jiří Petřivalský, il leader praghese del movimento noto con l’acronimo Dsss, che ci ha parlato del partito. La politica impone un’etichetta: così dagli slogan gridati ecco il rigoroso snocciolarsi dei punti di un programma. Un maquillage riuscito, ma restano due facce di una stessa medaglia.
Jiří, che porta una pesante giacca di pelle con infilata sul bavero la spilla del partito, vuole essere ben chiaro su tre punti: “Anzitutto crediamo sia necessario imporre ai Rom l’obbligo scolare” dice con voce ferma. Indugia un attimo e continua:”è necessario un generale taglio dei sussidi statali, e l’esclusione dagli assegni sociali per i delinquenti recidivi”. Argomenti, questi, che se accompagnati da una generale epurazione da formule e manifestazioni violente, hanno un piglio innegabile su un ampio strato di popolazione. Un discorso rivolto a chi, ora più di prima, è maggiormente avvilito da un insieme di fattori.
Si capisce la frustrazione degli abitanti dell’ Ústí nad Labem solo tenendo presente che in una cittadina come Varnsdorf, ad esempio, il tasso di disoccupazioe si aggira attorno al 20% dove la media nazionale della Repubblica Ceca è del 7%. Lì, di tutti i Rom residenti praticamante nessuno lavora, ma i sussidi statali continuano ad essere distribuiti e raccolti con puntuale regolarità.

È su questa insoddisfazione e impotenza dei cittadini di fronte all’ingranaggio statale che il DSSS guadagna popolarità. Il leader praghese si dice totalmente insoddisfatto dall’operato dell’attuale governo – una coalizione a tre, di centrodestra, capitanata dal partito Democratico civico – la cui totale inerzia con cui indugia sulla questione zingara non fa che aggravare la situazione. Nelle ultime elezioni del maggio 2010 il partito ha raccolto solo l’1,14% dei voti, ma oggi i consensi potrebbero essere molti di più
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Lontani dagli spot inneggianti alla cacciata dei Rom del Národní strana, o Partito Nazionale, la cui attività è stata fermata dalla corte suprema amministrativa il 17 agosto di quest’anno, questa destra mette sul piatto obbiettivi populistici che fanno presa sull’opinione pubblica. In più, sembra che certi orientamenti si facciano accettare anche ai piani alti: la tolleranza verso sentimenti d’estrema destra languisce nelle stanze del potere. Lo dimostra il caso di Ladislav Bátora che, nonostante il suo passato da militante del Partito Nazionale, è stato nominato capo ufficio del personale e vice capo cancelleria al Ministero della scuola. Bátora solo dopo un lungo strascico di polemiche ha deciso di lasciare gli incarichi, mantenendo tuttavia un ruolo di consigliere, e ha ventilato la possibilità di un suo ritorno alla politica attiva.

Sullo scacchiere politico ceco esiste uno spazio vacante tra il partito Civile Democratico e i nazionalisti. Uno squarcio invitante per un forte partito di destra di possibile rappresentanza parlamentare. Voci insistenti azzardano addirittura il nome dell’attuale presidente Václav Klaus, a fine mandato nel 2013, come leader di un partito modellato su questo calco. Un’idea non troppo balzana se si pensa che è stato lo stesso Klaus a difendere Bátora dalla controversia seguita alla sua nomina a consigliere. La congiuntura politico economica sembra propizia, mentre gli ultimi avvenimenti stanno creando il giusto retroterra.
Del resto già in gran parte d’Europa i movimenti di estrema destra hanno registrato importanti successi elettorali: da ultimo in Finlandia dove il partito dei Veri Finlandesi è arrivato a raccogliere il 20% dei consensi. Nella vicina Ungheria il partito Jobbik, di dichiarato e spinto nazionalismo, è entrato in parlamento nel 2010 conquistando 47 dei 386 seggi. Una tendenza di cui sorride Pavel Szudár, cameriere di professione e leader praghese della Dělnická mládež, la gioventù del Dělnická strana socialni spravedlnosti organizzata in un gruppo indipendente. “Personalmente trovo molto interessante il programma del partito magiaro” ci ha confidato nel colloquio avuto assieme all’amico Jiří Petřivalský.

È chiaro che la questione destra in Repubblica Ceca resta materia da maneggiarsi con i guanti. Le marce di Varnsdorf hanno raggiunto la capitale al grido “Gli zingari mandiamoli a Praga”. Il ministro degli esteri Karel Schwarzenberg ha più volte tuonato contro queste manifestazioni, autentiche passerelle per estremisti. In tutto questo non bisogna dimenticare che proprio il Dsss non è che una riproposizione, del resto quasi identica, del vecchio partito Dělnická strana la cui attività è stata fermata dalla corte suprema nel febbraio dell’anno scorso a causa di un’ideologia estremista sfociata in derive criminali.

Ora, oltre la cronaca, non resta che guardare sulle prossime elezioni, bilancia ultima di ogni speculazione politica. Solo allora la Repubblica Ceca potrà quantificare, o smentire, il peso crescente della sua destra.
Se lo sbarramento parlamentare del 5% rimane un traguardo irraggiungibile per qualsivoglia formazione manifestamente nazionalista non lo sarebbe per una formazione più moderata, supportata da argomenti popolari. Va inoltre tenuta in considerazione una altra soglia: l’agognato 3% che da accesso al finanziamento pubblico ai partiti.

La situazione attuale potrebbe favorire il farsi avanti di un leader forte e carismatico, come l’attuale presidente Klaus, in grado di fare presa su una larga parte di opinione pubblica. È palese che la questione Rom vada discussa con maggiore tranquillità e concretezza. Partendo da questi presupposti un nuovo partito di destra ha tutte le carte in regola per imporsi, superando di un buon margine la percentuale di ingresso in parlamento. Per ora tutto resta incerto, così non resta che riavvolgere il nastro e tornare a chiederci: cosa dobbiamo aspettarci?

Di Edoardo Malvenuti