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Reso immortale da interpretazioni memorabili, Rudolf Hrušínský resta ancora oggi un’icona del cinema ceco nel mondo. Un attore di grande poliedricità, capace di interpretare in modo magistrale ruoli antitetici come l’esilarante soldato Švejk e il diabolico Kopfrkingl

“Nessuno soffrirà, li salverò tutti. Li salverò tutti! Il mondo intero…” Chi ha avuto la possibilità di vedere il film Spalovač mrtvol (1969) – ovvero “L’Uomo che bruciava i cadaveri” – si ricorderà le parole del diabolico Karel Kopfrkingl, impersonato dal leggendario Rudolf Hrušínský. L’interpretazione, caratterizzata da un modo di parlare a tratti rilassante, poi snervante, è stata descritta da Michael Brooke, critico britannico esperto del cinema dell’Europa centrale, come “una delle migliori non solo della storia del cinema ceco ma di quello europeo”.

In patria resta solo uno di tanti episodi di una carriera memorabile, durante la quale portò fra l’altro in scena il personaggio letterario più amato del Paese, il buon soldato Švejk, senza dimenticare la lunga collaborazione con il regista Jiří Menzel. Nonostante il grande successo, nel cinema come nel teatro, quella di Hrušínský fu una carriera costellata da ostacoli, e appare legittimo chiedersi quale sarebbe stata la sorte del grande attore se avesse lavorato all’estero, magari oltreoceano.

Nella sua famiglia l’arte della recitazione era ben radicata da generazioni e questo fece sì che la sua carriera fosse stabilita sin dalla nascita. Venne alla luce – il 17 ottobre 1920 a Nový Etynek (un villaggio della Boemia meridionale che oggi si chiama Nová Včelnice) – dietro il palco della compagnia nomade di suo nonno, Václav Červíček-Budínský, della quale facevano parte anche i genitori, Rudolf Hrušínský senior ed Hermína Červíčková-Budínská, entrambi attori.

Stabilitisi successivamente a Praga, il ragazzo iniziò a studiare al liceo classico, ma ne venne espulso a causa delle frequenti assenze dovute all’attività teatrale già intrapresa.

Dopo le prime parti in teatro, si fece spazio con costanza sul grande schermo: all’età di 25 anni aveva già partecipato a 17 pellicole. Abile nel passare da ruoli comici a ruoli drammatici, stupiva il pubblico per la sua particolare capacità oratoria, calma e misurata, a volte accompagnata da poche espressioni facciali, gesti prudenti e occhi malinconici. Un attore capace di recitare magistralmente con un semplice cambio d’intonazione della sua celebre voce. Anche il fisico gli consentì di interpretare ruoli diversi. Bello e attraente da giovane, col passare del tempo, appesantito, divenne più adatto a fare il caratterista piuttosto che il protagonista di film romantici.

Negli anni ‘50 giunse a una serie di ruoli memorabili, fra cui spicca il citato Švejk nel film di Karel Steklý, basato sul celebre romanzo di Jaroslav Hašek. Fu un ruolo che gli portò grande popolarità e, di conseguenza, la partecipazione a diversi dei migliori film cecoslovacchi del tempo come “Baron Prášil” (Il barone di Munchausen, 1962) di Karel Zeman, maestro cecoslovacco del cinema d’animazione, o la commedia “Bílá paní” (La Signora bianca, 1965) per menzionarne solo alcuni.

Una pellicola curiosa, riscoperta recentemente nei mercati occidentali, è “Třicet jedna ve stínu” (Trentuno gradi all’ombra), una coproduzione ceco-britannica del 1965 con l’iconico Hrušínský a fianco di stelle del cinema inglese dell’epoca. Il film fu diretto da Jiří Weiss, uno dei migliori registi cechi del periodo, che in interviste successive rivelò di una forte concorrenza sul set nello stile di recitazione, fra gli attori inglesi dalla classica formazione teatrale e lo stile più naturale di Hrušínský. La rivalità continuò anche nella fase di postproduzione quando i produttori inglesi, temendo che la grande interpretazione del boemo offuscasse le stelle britanniche James Booth e Anne Heywood, decisero di tagliare diversi minuti di girato con Hrušínský – episodio che provocò un litigio tra lo stesso regista ed i produttori. Ambientato nella Cecoslovacchia comunista degli anni ‘60, Třicet jedna ve stínu fu una delle poche coproduzioni cecoslovacche con un paese dell’Europa occidentale; il film fu realizzato in due versioni, una in inglese ed una in ceco. Riguardandolo oggi è facile rendersi conto che l’attore boemo rubò effettivamente la scena ai colleghi; d’altra parte, bisogna anche sottolineare come la versione inglese vada del tutto evitata, visto che il doppiaggio di Hrušínský rovina del tutto la sua interpretazione.

Se Hrušínský rimane la faccia più riconosciuta dell’epoca d’oro del cinema cecoslovacco, gli anni ‘60, non è tuttavia per merito di una coproduzione internazionale ma per lo splendido adattamento cinematografico del libro Spalovač mrtvol (Il bruciacadaveri) di Ladislav Fuks. Il film, diretto dal regista Juraj Herz, si caratterizza per gli angoli di ripresa insoliti, così come per la calma e inquietante pronuncia delle battute del protagonista (Hrušínský per l’appunto), spesso accompagnate da una specie di coro di sottofondo. Girato in un bianco e nero ispirato all’espressionismo tedesco, la storia, ambientata nella Praga degli anni Trenta, racconta di Karel Kopfrkingl, direttore di un crematorio – che egli nobilita con l’epiteto di “tempio della morte” – e sostenitore entusiasta del nazismo. Una satira nera dai toni grotteschi ed impregnata di umorismo sottile, il film fu repentinamente messo al bando dalle autorità filosovietiche fino al 1989. Oggi viene considerato un caposaldo della Nová vlna cecoslovacca, e parte del suo successo si deve indubbiamente a Hrušínský.

Scrivendo dell’attore, saremmo in torto se non ricordassimo le storiche collaborazioni con Jiří Menzel, considerato da molti critici e appassionati come il miglior esponente, con Miloš Forman, del cinema cecoslovacco. Ad eccezione della pellicola che lo condusse all’Oscar, “Ostře sledované vlaky” (Treni strettamente sorvegliati, 1966), la maggior parte delle pellicole di successo di Menzel ha vantato la presenza di Hrušínský. Tra i più noti “Un’estate capricciosa” (1968) e “Allodole sul filo” (1969).

La carriera di Hrušínský, tuttavia, non fu solo una marcia trionfale senza intoppi. Un aspetto complicato della vita dell’attore, come tanti coetanei in quel periodo, fu il rapporto con la politica. Durante la Primavera di Praga, firmò il manifesto delle Duemila Parole, un documento che chiedeva progressi rapidi verso una vera democratizzazione del Paese. Questo gli costò, durante la Normalizzazione comunista, la totale esclusione per alcuni anni dall’attività lavorativa. Nel 1977, quando la carriera aveva cominciato lentamente a riprendere, accettò – per paura di un nuovo stop – di firmare l’Anticharta 77, un manifesto filogovernativo in risposta al famoso documento della dissidenza redatto da Václav Havel.

Negli anni ‘90, infine, anche l’Italia ebbe modo di apprezzare il suo talento, grazie alle interpretazioni nel film “La Valle di Pietra” (1992), sceneggiato da Ermanno Olmi, nonché nella sesta stagione dell’allora popolarissima serie tv “La Piovra”, in cui interpretava il ruolo di un banchiere con un passato nazista. Entrambe le prove furono ulteriori segni della capacità dell’attore di far colpo anche a livello internazionale. Furono purtroppo però anche le ultime. Spentosi il 13 aprile del 1994, Hrušínský non può che essere sempre ricordato come una delle migliori espressioni dell’età d’oro del cinema ceco.

di Lawrence Formisano