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La tenuta o l’affermazione dei partiti sovranisti e le novità che giungono dalla Slovacchia: l’asse di Visegrad è a rischio tenuta
La Repubblica Ceca e la sua posizione a difesa degli “interessi nazionali” sia con il V4 che senza il V4

Si spartiranno in tutto appena 108 dei 705 seggi dell’Europarlamento di Strasburgo (esclusi quelli britannici, in forse prima e dopo le europee). Ventuno di questi, neanche uno in più rispetto a cinque anni fa, saranno quelli destinati ai candidati cechi, 14 (un seggio in più) per gli slovacchi, 52 per i polacchi (anche qui uno in più) e 21 per gli ungheresi. Una tornata elettorale, quella delle europee di maggio, che secondo molti potrebbe portare all’affermazione, anche se non schiacciante, del fronte populista e sovranista, schieramento che nei quattro del Gruppo di Visegrad ha grandi estimatori e protagonisti, il premier ungherese Viktor Orbán su tutti. Non scherza, però, neanche la Repubblica Ceca con il suo primo ministro Andrej Babiš che, pur non essendo mai entrato nello scontro aperto con Bruxelles come i suoi vicini, Budapest e Varsavia, ha più volte attaccato le élite europee con toni dispregiativi e ha deciso anche di non presentarsi davanti all’emiciclo di Strasburgo perché ritenuta una fatica inutile.
In questo quartetto, però, si segnalano le novità provenienti dalla Slovacchia, con la trionfale elezione come presidente di Zuzana Čaputová, convinta europeista, e con la decisione del popolarissimo presidente uscente Andrej Kiska, moderato e anche lui filo Ue, di fondare un proprio partito in vista delle prossime elezioni politiche e di puntare alla carica di premier. Un tandem che promette di scompigliare, almeno a parole, le posizioni sovraniste, anti-migranti e anti-multiculturalismo prevalenti oggi nel V4.

Un V4 che si prepara a entrare a luglio in mani ceche, con la presidenza di turno destinata a Praga. Sarà allora interessante vedere quali saranno le mosse della Repubblica Ceca per evitare l’incrinarsi dell’asse centroeuropeo e per confrontarsi con i nuovi equilibri europei.

E se l’affluenza sarà in tutto il Continente un’incognita decisiva per la crescita di alcune forze, rispetto ai gruppi del Ppe e del Pse (popolari e socialisti), sulla percentuale di aventi diritto che andrà a votare si giocano anche alcuni dei destini dei Paesi del V4, soprattutto per la Polonia, dove il fronte dei conservatori di Jaroslaw Kaczynski (Pis) è dato testa a testa con la Coalizione europea (KE), l’alleanza tra cinque partiti d’opposizione coalizzati contro la deriva nazionalista polacca.

L’Ungheria di Orbán – con Fidesz sospeso dal Ppe ma pronto a rientrare dalla finestra grazie alla buona quantità di voti che incasserà alle urne – è probabilmente il Paese che fornirà meno sorprese all’indomani del voto. Il partito del primo ministro, infatti, non ha grandissimi rivali e con la sua politica del “noi contro loro”, della “difesa degli interessi magiari contro la corrotta Bruxelles”, della retorica anti-migranti e nonostante le minacce di procedure di infrazione sulle sempre più evidenti lacune dello stato di diritto in Ungheria, si candida a restare la spina nel fianco dell’Ue anche per il prossimo quinquennio. Una spina nel fianco, però, un po’ spuntata se, come è verosimile, la Gran Bretagna prima o poi porterà a termine la Brexit. Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria, infatti, in questi anni hanno sfruttato l’eterodossia britannica per lanciare le loro sfide contro l’accentratrice Ue. Senza Londra un peso importante verrà a mancare nelle lotte di questi Paesi, Praga in primis. E la Brexit peserà anche sull’export ceco, in particolare l’automotive, che ha nel mercato britannico uno sbocco importante.

E se Polonia e Ungheria hanno in comune molto, le riforme criticatissime della giustizia e la stretta illiberale sull’informazione, il no all’euro, le posizioni conservatrici e nazionaliste, dall’altra parte della barricata, sembra iniziare a tirare aria nuova. In Slovacchia la Čaputová si è espressa apertamente a favore di una “Slovacchia europea” e contro “il populismo e il sovranismo” che sono cresciuti anche nel V4 “perché le persone sono deluse”. Il suo nome potrebbe incrinare la compattezza (più di facciata a volte) di Visegrad. “È facile, come fanno populisti ed euroscettici, dire no all’Europa e basta – ha detto la neoeletta Presidente – occorre invece che i democratici europei di ogni colore offrano risposte, idee e nuovi contratti sociali di fiducia con i cittadini per rilanciare l’Europa come progetto comune”. Del resto che la figura di Čaputová possa creare uno scossone nel V4 è convinto anche il presidente ceco Miloš Zeman, che ha confessato al rivale della presidente, Maroš Šefčovič, come l’elezione della leader progressista possa mettere a rischio la collaborazione del gruppo dei Quattro.

In questo contesto in cui sembra che Visegrad vada in ordine sparso e che quel serbatoio di presunti voti populisti e sovranisti agognati da un certo fronte della Vecchia Europa, stenti a decollare, la Repubblica Ceca resta in una posizione ondivaga, divisa tra le posizioni umorali e filo-russe del presidente Zeman e l’euroscetticismo, ma non troppo forzato, del premier Babiš. Quest’ultimo, poi, non ha mai preso posizioni di rottura nei confronti dei partner più ingombranti del V4 e nelle ultime due occasioni che hanno visto in prima linea la figura dirompente di Orbán, il premier ceco ha cercato più volte di restare a fianco dell’alleato magiaro, o non commentando, come nel caso della sospensione dal Partito Popolare europeo (si è smarcato dicendo di potersi esprimere solo sul suo gruppo all’Europarlamento, l’Alde) oppure stendendo tappeti rossi all’omologo ungherese in occasione della sua recente visita a Praga.

Una posizione centrista, che potrebbe caratterizzare anche la futura presidenza ceca di V4. Del resto, come ha risposto direttamente a una domanda il ministro degli Esteri ceco Tomáš Petříček, prendendo le distanze da chi parla di “orbanizzazione” del gruppo: “Il V4 non è omogeneo. Il nostro interesse è quello di promuovere principalmente gli interessi cechi. Questo è il punto di partenza con cui ci avviciniamo a Visegrad. Se questi interessi coincidono con gli interessi dei nostri partner V4, possiamo lavorare insieme. Se troviamo maggior accordo con la Germania, andiamo avanti con Berlino”. E come potrebbe essere diversamente? Più dell’80% dell’export ceco è diretto all’Europa occidentale, con una grande quota verso la Germania. In questo senso preoccupa, anche la Slovacchia, il rallentamento dell’economia tedesca. E non potrebbe essere diverso l’approccio a Visegrad anche per i vari temi di attrito e non di comunanza che Praga ha con i vicini. L’ultimo dei quali è stata la contesa sulla carne alla salmonella importata dalla Polonia nei mercati cechi. Il ministro dell’Agricoltura polacco Jan Krystztof Ardanowski non ha nascosto il possibile conflitto di interessi di Babiš e della sua Agrofert: “D’altronde, parliamo di un Paese con un premier che è allo stesso tempo proprietario di un grande conglomerato agroalimentare”.

Praga, d’altro canto, resterà a fianco di Polonia e Ungheria su altri fronti: il no all’euro, la posizione anti-quote sui migranti (tema che sta scemando) e la richiesta di non essere lasciati ai margini come europei di serie B. In questo senso il nuovo Europarlamento avrà sicuramente più voce in capitolo con un nuovo peso per le scelte sul budget e con la scelta del presidente della Commissione europea. Visegrad, comunque, resta uno dei tre pilastri su cui si fonda la politica ceca per l’Europa centrale: gli altri due sono le relazioni con la Germania, cementificate nel 2015 dalla firma del Dialogo strategico ceco-tedesco e il format di cooperazione trilaterale austro-ceco-slovacco, (Slavkov) creato nel 2016. Proprio dentro quest’ultimo gruppo di lavoro si parla di una politica centroeuropea più strutturata e che non dipenda soltanto dal V4.

Interessante sarà quindi vedere quale sarà la posizione di Praga nella sua presidenza del Gruppo, che partirà un mese dopo le elezioni europee, e capire come influiranno la presidenza Čaputová e il possibile cambio di governo sempre in Slovacchia da una parte e il risultato delle elezioni politiche in Polonia in autunno dove la coalizione anti-Pis potrebbe riservare delle sorprese e un nuovo slancio europeista. Non è escluso che Orbán possa diventare la pecora nera (e isolata) del gruppo di Visegrad.

di Daniela Mogavero