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Mille interrogativi dopo il responso delle urne. Notevole ridimensionamento dei partiti tradizionali ed exploit del voto di protesta e di impronta populista. Il tycoon Andrej Babiš nuovo protagonista della politica ceca

Le elezioni anticipate di rinnovo della Camera dei deputati, svoltesi il 25 e il 26 ottobre, come era prevedibile, hanno lasciato più dubbi che certezze su quale potrà essere il futuro governo di Praga e soprattutto su quale programma potrà realizzare.

Fra tante incognite, una cosa però è chiara: per la formazione del prossimo esecutivo, non si potrà prescindere dal miliardario Andrej Babiš, il quale, alla guida del suo movimento Ano 2011 (la parola in ceco significa Sì, e in questo caso risulta l’acronimo di Akce nespokojených občanů, Iniziativa dei cittadini scontenti), è riuscito a conquistare il 19% dei voti e 47 deputati, su 200 complessivi.

Il “Berlusconi della Repubblica Ceca”, o più sinteticamente “Babišconi”, come qualcuno comincia a chiamarlo, 59 anni, slovacco di origine, uno degli uomini più ricchi dell’Europa centrale, è a capo di un impero agroalimentare e chimico, composto da 200 aziende, valutato quasi 100 miliardi di corone (circa quattro milioni di euro) e con quasi trentamila dipendenti. Babiš promette di riformare lo Stato applicando – ha detto – gli stessi principi coi quali gestisce le sue aziende, di far valere i principi di solidarietà sociale, di migliorare le pensioni degli anziani e allo stesso tempo di non aumentare le tasse, ma solo di migliorare il sistema di riscossione. Sul fronte della occupazione, la ricetta di Babiš è ancora più diretta: “fidatevi di me che posti di lavoro ne ho creati così tanti”. Promesse che hanno convinto tanti elettori, tanto che, durante lo spoglio dei voti, è sembrato persino che Ano 2011 potesse insidiare ai Socialdemocratici della Čssd la posizione di primo partito.

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I grandi delusi di queste elezioni sono proprio i Socialdemocratici, incapaci di andare oltre uno striminzito 20,5% dei voti (pari a 50 deputati), un risultato ben lontano dal 30% al quale puntavano e che significa l’addio al progettato governo monocolore Čssd, con il sostegno esterno dei Comunisti non riformati del Ksčm.

Questi ultimi – apertamente nostalgici del regime pre ‘89 – sono peraltro riusciti a rafforzare il tradizionale zoccolo duro, raggiungendo il 15% dei voti e 33 deputati (sette in più del 2010).

Il consenso ai Comunisti è giunto soprattutto nelle zone del Paese più afflitte dalla disoccupazione e dal malessere sociale, come in primo luogo i distretti in crisi del carbone e della siderurgia della Moravia del nord, dove il tasso dei senza lavoro sfiora il 15%.

La distribuzione geografica del voto ha indicato ancora una volta il divario che intercorre in Repubblica Ceca fra la capitale Praga e il resto del Paese. La Capitale costituisce quasi uno stato nello stato, una isola di benessere, con disoccupazione molto lieve (poco più del 4%, mentre la media nazionale è vicina all’8%), stipendi medi di quasi 33 mila corone al mese (circa 1300 euro, rispetto una media nazionale che non raggiunge le 25 mila corone) e un tenore di vita complessivo ben al di sopra della media Ue. Nella zona di Praga, dove risiede poco più di un milione dei dieci milioni di abitanti della Repubblica Ceca, si calcola che il Pil pro capite medio sia superiore del 70% alla media Ue (fonte Eurostat). A livello nazionale ceco non si raggiunge invece l’80% della media Ue. Un divario che, andando a spulciare le statistiche, si riflette persino sulle speranze di vita degli abitanti, che nella capitale sfiorano gli 80 anni, quasi cinque in più rispetto alle regioni più povere e alle prese con problemi ambientali.

Non è un caso che a Praga il primo partito sia stato quello conservatore dei Top 09, lo schieramento guidato dal principe Karel Schwarzenberg, che nella capitale ha raccolto il 23% dei voti, rispetto a un ben più magro 12% in campo nazionale. L’anziano e carismatico aristocratico – presentatosi nei manifesti elettorali nelle vesti di agente 007 in smoking, intento a fronteggiare il rischio della avanzata comunista – è stato evidentemente molto convincente nella ricca e occidentale Praga, molto meno a Ostrava e dintorni, in Moravia del nord, dove migliaia di minatori e operai rischiano di perdere il lavoro e dove pesano i tagli al welfare voluti dal precedente governo di centrodestra.

In piena debacle i Democratici civici dell’Ods, forza storica della destra ceca, i quali sono riusciti ad eleggere appena 16 deputati (37 in meno della precedente legislatura), travolti dagli scandali e dalla rigida politica di austerity sostenuta negli ultimi anni di governo.

Altri due partiti sono riusciti a superare lo sbarramento del 5%. L’Úsvit (Aurora), altra forza marcatamente populista, guidata da Tomio Okamura, un ceco di origine giapponese, animato da una retorica a base di appelli alla democrazia diretta, all’uso massiccio del referendum e alla lotta contro la corruzione. Infine i Cristiano democratici del Kdu-Čsl, che tornano alla Camera dopo avere saltato una legislatura.

Visti i numeri in campo e il mosaico/spezzatino di sette partiti ora rappresentati alla Camera, la soluzione più praticabile per il governo è sembrata sin da subito una maggioranza a tre di centrosinistra. A formarla dovrebbero essere i Socialdemocratici, l’Ano 2011 di Babiš e i Cristiano democratici del Kdu-Čsl.

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Si tratterebbe comunque di una coalizione dall’agenda ancora indefinita e con un grande punto interrogativo su chi potrà esserne il premier.

Per quanto riguarda il programma lo scoglio maggiore è sul fronte fiscale, visto che Babiš ha promesso di non aumentare le imposte, mentre i Socialdemocratici vogliono fare il contrario, sia nel caso dei cittadini più abbienti che delle società commerciali (in primo luogo le aziende del settore energetico, finanziario e delle telecomunicazioni).

Delicato anche il tema delle restituzioni alle chiese dei beni nazionalizzati durante il regime pre ‘89. I Socialdemocratici chiedono infatti una revisione della legge appena approvata e una diminuzione dei risarcimenti finanziari programmati, che considerano troppo generosi a favore delle chiese. Freddo nei confronti di questa legge è anche il movimento di Babiš, che sembra già orientato a schierarsi a favore di un riesame della normativa.

Di parere opposto i Cristiano democratici, vicini ovviamente alla Chiesa cattolica, tant’è che alcuni dirigenti Kdu-Čsl hanno dichiarato, anche dopo le elezioni: “Per noi è un capitolo chiuso. Riaprire la questione sarebbe da Repubblica delle banane”.

La sintonia dei tre partiti non appare stabile neanche sul fronte delle politiche europee, con la premessa tuttavia che questo tema è rimasto in secondo piano durante tutta la campagna elettorale, trascurato dai leader politici e visibilmente poco sentito dall’elettorato.

Vicini a Bruxelles appaiono i Socialdemocratici, che da tempo sostengono la necessità di firmare l’adesione al Fiscal compact. Sinora in Ue solo Praga e Londra si sono rifiutati di farlo. In tempi di crisi della eurozona, i Čssd sono invece più cauti sulla futura adesione alla moneta unica europea, che secondo loro non potrà avvenire prima del 2020. Posizione quest’ultima condivisa dai Cristiano democratici.

Tutta da interpretare è invece la posizione rispetto all’Unione del partito di Babiš. Nel programma elettorale è sottolineata la necessità che la Repubblica Ceca diventi “un partner serio e affidabile di Bruxelles” e che si consolidi la partecipazione ceca alla Ue. Lo stesso Babiš però non nasconde di considerare inaccettabile ogni forma di più intensa integrazione degli stati Ue. “Il Fiscal compact danneggia la nostra sovranità nazionale” ha detto, senza mancare di manifestare la propria contrarietà anche rispetto al Sistema unico di sorveglianza bancaria, “che a noi non serve perché gli istituti di credito in Repubblica Ceca funzionano in maniera corretta”.

Netta inoltre la sua avversione verso i programmi di ingresso in eurozona: “So quello che dico, perché io, con il mio gruppo di aziende, sono il quarto esportatore del Paese e mi occupo di commercio con l’estero da una vita. La corona ceca è uno strumento indispensabile per stimolare la nostra economia e difendere il nostro export. Di Repubblica Ceca in eurozona, quindi, non se ne parla nemmeno”.

Grande è infine l’incertezza sul leader che potrà porsi alla guida, come premier, di questo ipotizzato governo di coalizione a tre.

L’incarico, salvo sorprese, andrà a Bohuslav Sobotka, il leader socialdemocratico, nonostante sia notoriamente malvisto dal capo dello stato Miloš Zeman. Va detto che le sue quotazioni, immediatamente dopo il deludente risultato elettorale, erano apparse in caduta libera. Sobotka ha però avuto la forza di resistere agli attacchi rivoltigli da una parte dei suoi compagni di partito, in modo particolare dai “golpisti” guidati dal rampante Michal Hašek (governatore della Moravia del sud e vicepresidente Čssd) e istigati dallo stesso capo dello stato Zeman.

Sobotka, con ogni probabilità, è destinato a uscire vincitore dalla resa dei conti interna al partito socialdemocratico. Tuttavia rimane questo interrogativo: che stabilità potrà assicurare al governo un partito così malconcio come quello socialdemocratico?

Babiš, dal canto suo, si è già detto d’accordo, in linea di massima, rispetto a un progetto di alleanza con Čssd e Kdu-Čsl e a un governo guidato da Sobotka, ma ha anche prenotato un posto in prima fila nel futuro esecutivo: “mi dedicherò al ministero delle Finanze, per correggere tutti gli errori commessi dal precedente governo”.

In ogni caso Babiš ha escluso in modo categorico collaborazioni di governo con i Comunisti così come con l’Ods e il Top 09, due partiti che ha definito “il simbolo della corruzione nel paese”.

Intanto, a consolidare la propria immagine di emulo di Berlusconi, Babiš appena pochi giorni prima del voto ha realizzato un clamoroso sbarco nel mercato dei media comprando due delle testate più lette del paese, il Mlada Fronta Dnes e il Lidové Noviny, e annunciando l’intenzione di costituire il principale gruppo editoriale del paese entro i prossimi quattro anni. “Perché lo ritengo conveniente dal punto di vista imprenditoriale e perché conto di trarne un profitto, non certo perché mi sia di aiuto in politica” ha detto.

La palla per il futuro governo è ora nelle mani del capo dello stato Miloš Zeman – veterano della sinistra e vecchia volpe della politica – al quale compete il potere di nominare il prossimo premier. La creatività decisionista con la quale Zeman esercita i poteri presidenziali è ben nota e non è da escludere, in una situazione di così poca chiarezza, che dal cilindro presidenziale possano giungere soluzioni a sorpresa.

Alcuni osservatori considerano persino probabile che possa rimare in carica ancora a lungo l’attuale governo tecnico guidato dall’economista Jiří Rusnok e voluto da Zeman la scorsa estate, “il governo degli amici del Presidente” come lo chiamano i critici.

di Giovanni Usai