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Gli affari d’oro dell’industria ceca delle armi, grazie anche al budget in aumento della Difesa nazionale

Non è un mistero che le attuali tensioni internazionali rappresentino un business enorme per i produttori e i commercianti di armi di tutto il mondo, compresi quelli della Repubblica Ceca. In questo paese l’export militare cresce infatti da qualche anno a ritmi elevatissimi e secondo stime accreditate dovrebbe aver raggiunto nel 2014 la cifra complessiva di 360 milioni di euro, più del doppio rispetto al 2011.

La Repubblica Ceca in questo mercato internazionale ha una dimensione ben inferiore rispetto ai maggiori esportatori Ue, visto che il suo export militare rappresenta un valore pari a un ventesimo di quello della Germania e circa un decimo di quello di Francia e Italia. Tuttavia il trend positivo degli ultimi tempi sta risvegliando l’orgoglio dei produttori nazionali, in un paese che nel campo della industria degli armamenti vanta tradizioni di eccellenza, risalenti all’Impero Austro Ungarico e mantenute nel periodo della indipendenza nazionale, sino alla vigilia della Rivoluzione di velluto. La Cecoslovacchia negli anni ‘80 era il settimo paese esportatore di armi in campo mondiale. Allora i maggiori mercati di vendita erano l’Urss e tutti gli stati membri del Patto di Varsavia, così come molti dei cosiddetti paesi in via di sviluppo vicini ideologicamente alla Cecoslovacchia comunista.

La flessione arrivò dopo la caduta del muro di Berlino, con la fine della Guerra fredda e la distensione internazionale. A Praga negli anni ‘90 prevalse anche la linea politica di togliere al paese l’immagine di potenza mondiale degli armamenti, il che si rivelò fatale per molte aziende del settore. “Dietro gli intenti pacifisti – ipotizzano oggi alcuni addetti ai lavori – si celava però in quegli anni anche l’interesse di indebolire la nostra industria militare e favorire certa concorrenza internazionale”.

Gli affari benedetti dalla politica e le critiche di Amnesty International

A proposito della ripresa di questi ultimi anni, è indicativo l’orgoglio manifestato da Jaroslav Strnad, fondatore di Excalibur Army, una holding alla quale fanno capo alcune delle più importanti aziende ceche specializzate nella produzione, riparazione e vendita di carri armati e mezzi corazzati, così come bombe, missili, proiettili e chi più ne ha più ne metta: “Oggi la Repubblica Ceca non si vergogna più di produrre armi di qualità. È chiaro che i conflitti e le tensioni del mondo attuale stanno dando al nostro settore una prosperità mai vista da tempo”.

Va detto che i prodotti di uso bellico, commerciati dalle aziende ceche, non sempre sono di produzione nazionale. Tipico l’esempio degli stock di armi dismesse dagli eserciti dell’ex blocco sovietico, che ancora oggi le aziende ceche comprano per poi rimodernarle e rivenderle all’estero.

Rispetto al passato, fanno notare gli addetti ai lavori, c’è anche un maggiore sostegno politico. Proprio la Excalibur Army è salita di recente agli onori della cronaca grazie a due grosse operazioni di ammodernamento e fornitura di veicoli da combattimento a Nigeria e Iraq. In entrambi i casi si è trattato di commesse realizzate con il pieno consenso del governo di Praga, con la motivazione che gli armamenti cechi verranno utilizzati per fronteggiare la minaccia degli estremisti islamici: in Iraq contro l’Isis e in Nigeria contro il movimento fondamentalista Boko Haram. I rappresentanti di Excalibur Army hanno precisato di aver avuto la meglio sulla concorrenza straniera per il conveniente rapporto qualità prezzo, così come per la rapidità di consegna di mezzi corazzati. La stessa Excalibur dovrebbe provvedere anche alla riqualificazione dei carri armati di cui dispongono le forze armate dell’Afghanistan, secondo i primi accordi presi durante una recente visita del ministro della Difesa Martin Stropnický in quel Paese.

L’ascesa della Repubblica Ceca nel mercato internazionale delle armi dà luogo però, forse inevitabilmente per questo tipo di commercio, a incidenti di percorso e a operazioni di carattere molto controverso. Nel mese di febbraio i giornali hanno portato alla luce la vicenda di tre aziende ceche che, malgrado l’embargo chiesto dalla Ue a tutti i paesi membri, per tutto il 2014 hanno continuato a esportare in Ucraina cannoni per aerei e munizioni di vario tipo, prima di vedersi sospendere la licenza di export all’inizio del 2015. Una situazione imbarazzante per il governo, per la quale ci sono stati malumori anche in seno alla maggioranza, tant’è che il deputato socialdemocratico, Stanislav Huml, ha protestato, chiedendo, peraltro senza ottenerle, le dimissioni di tre ministri: Lubomír Zaorálek (Esteri), Jan Mládek (Industria e Commercio) e Martin Stropnický (Difesa). All’insegna del massimo pragmatismo il commento su questa vicenda di Jiří Hynek, presidente della Associazione ceca delle industrie di difesa e sicurezza: “Noi cechi non siamo gli unici in Europa ad aver venduto armi all’Ucraina”.

Giusto per rimanere in tema di aspetti controversi, la sede ceca di Amnesty International lo scorso anno ha annunciato una lettera al ministro degli Esteri Lubomír Zaorálek, lamentandosi del fatto che più della metà dell’export militare ceco ha come destinazione finale i cosiddetti “stati canaglia”, vale a dire paesi dove vigono regimi autoritari e dove si registrano violazioni dei diritti umani.

La voglia di shopping dei militari cechi

Le forze armate della Repubblica Ceca, dopo anni di cura dimagrante, premono ultimamente con una certa insistenza per avere più soldi. I generali, d’altronde, sanno bene che il tempo è propizio per chiedere un miglioramento del budget e anche questo è un fattore che fa venire l’acquolina in bocca alle industrie ceche, e non solo, del settore militare.

Al tempo della Guerra fredda le forze armate della Cecoslovacchia disponevano, giusto per citare qualche cifra, di 200 mila soldati, 4.500 carri armati e quasi 5 mila mezzi corazzati. Oggi, con la fine della coscrizione obbligatoria, gli effettivi dell’esercito sono circa 20 mila, mentre risultano meno di 600 i mezzi da combattimento.

Nel commentare le tensioni internazionali e i conflitti, in particolare la crisi in Ucraina, il generale Petr Pavel – capo di stato maggiore della Difesa ceca e prossimo capo del Consiglio militare della Nato – nel corso di una conferenza sulla sicurezza alla Camera, è stato chiaro: “Noi oggi siamo già in guerra, solo che non ce ne siamo ancora accorti. Nel caso si dovesse giungere a vere azioni di combattimento non saremmo pronti e le nostre possibilità sarebbero molto scarse”. Lo stesso generale Pavel più volte ha dichiarato che il Paese deve quanto prima risolvere le attuali carenze degli arsenali.

Il governo sta cercando di mostrarsi sensibile a questa situazione e, nell’ultima versione attualizzata del Documento strategico per la sicurezza nazionale, ha stabilito l’obiettivo di portare il budget della Difesa all’1,4% del Pil entro il 2020 (rispetto a meno dell’1% attuale). Già nel corso di quest’anno sono in programma investimenti per miliardi di corone con l’acquisto di elicotteri da combattimento, radar e mezzi corazzati. Il ministero della Difesa vuole anche comprare nei prossimi mesi più di un miliardo di corone di munizioni, in gran parte per le forze di terra, ma si parla anche di missili, bombe e decoy per l’aeronautica.

di Giovanni Usai