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Lo scorso 17 novembre, 25esimo anniversario della Rivoluzione di Velluto, un collettivo di studenti ha imbiancato il celebre Muro di John Lennon di Praga. Riconsegnando ai mattoni un’eredità da provocatori

8 dicembre 1980, New York. Sono circa le 22.50, quando una limousine percorre la 72esima di Manhattan e accosta di fianco al grande edificio residenziale di fine Ottocento, il “Dakota”. Un uomo esce dalla vettura nella sua giacca di pelle nera, con in mano delle musicassette. Ad attenderlo da ore sulla strada che fronteggia il Central Park, una guardia giurata di 25 anni di nome Mark David Chapman. Ai primi passi dell’uomo, Chapman lo segue, e dalla distanza di circa tre metri esplode cinque colpi di pistola verso la schiena del malcapitato. Nel trambusto che ne viene, il 25enne è disarmato e immobilizzato dal portiere del Dakota, che gli grida in faccia “Lo sai cosa diavolo hai fatto?”. “Sì”, risponde calmo il ragazzo, “ho appena ucciso John Lennon”.

Il giorno successivo la notizia è sulle prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo: tanto ad est, quanto ad ovest, della cortina di ferro. La leggenda dei Beatles, la rock star, il pacifista John Lennon assassinato da uno squilibrato a New York.

Dal 9 dicembre 1980, l’artista di Liverpool entrava definitivamente nella mitologia della cultura pop, ed alla commozione seguiva la commemorazione. Nella grigia Praga della Normalizace i graffiti rimanevano il metodo preferito, soprattutto dai giovani, per esprimere le emozioni che difficilmente avrebbero trovato un lasciapassare nella “rispettabilità”del regime. Un muro in particolare, alto quattro metri e lungo più di venti, nel quartiere di Malá Strana e a pochi passi dall’isola di Kampa, era il diario preferito dall’impeto giovanile della capitale. Al tempo era chiamato “il muro del pianto”, e raccoglieva per lo più struggenti poesie e messaggi amorosi. A qualcuno sembrò naturale, in una notte di dicembre, fare due passi fino in Velkopřevorské náměstí (il nome della piazza dove si trova il muro) e scrivere un messaggio di ricordo per il musicista. In basso, a partire dal marciapiede, faceva parte del muro una lastra bianca, perfetta come simbolica lapide di Lennon. Quel qualcuno non fu il solo, e in poche settimane la parete si riempiva di testi dei Beatles e della Lennon / Plastic Ono Band, di ritratti, disegni, messaggi di speranza, messaggi diretti a tutti. Il muro cominciò ad assorbire tutta la voglia di libertà dei tempi.

Bisogna tener presente che il mito dell’ex-Beatles non era una semplice icona dell’Ovest, un prodotto del marketing da “vita migliore”, né tantomeno una figurina patinata dell’industria dello spettacolo. Lennon era prezioso proprio per essere un esponente critico del mondo al di là della cortina di ferro, pacifista, hippie, contestatore, contestato, fastidioso: non era uno sponsor del capitalismo, non era stretto nell’altro pugno della guerra fredda. John Lennon era la possibilità di esprimere la propria contrarietà ad un sistema, pur vivendoci dentro. John Lennon era la libertà più assoluta.

Il muro non era ben visto dalle autorità, che tentarono, in principio debolmente e senza troppa convinzione, di osteggiare le azioni dei writers. Nel 1981 i graffiti furono cancellati, tuttavia fu poi permessa una manifestazione nel primo anniversario. Le autorità non si interessarono al muro per qualche anno. La situazione cominciò a farsi più seria per il regime quando questo divenne non solo un raccoglitore di messaggi, quanto un catalizzatore di proteste. L’8 dicembre 1987, diverse centinaia di giovani si riunirono all’ombra del muro per dare vita ad una manifestazione pacifista non autorizzata. Sfilando per la città, tra slogan per i diritti civili e per il ritiro delle forze sovietiche nel paese, cantavano il celebre pezzo del ‘69 “Give peace a chance”. Da questo momento in poi nacque il termine “lennoniani”. Si dice che fosse stato Gustáv Husák in persona, il segretario del Partito, a coniarlo: un termine in principio sarcastico e derogativo, un mix tra capelloni, hippie, sociopatici, alcolizzati e, ça va sans dire, controrivoluzionari agenti del capitalismo. A maggio 1988, un articolo sulle disobbedienze civili nell’Europa orientale apparso sul “Bollettino degli scienziati atomici”(una rivista pacifista americana), individuava in un migliaio il gruppo di lennoniani cecoslovacchi: pacifisti, ecologisti, libertari. Seppur modesto, il gruppo era un grattacapo per il Partito, che decise nuovamente di cancellare i graffiti dietro un cupo verde militare. Il giorno dopo i lennoniani tornarono a colorarlo, e così per diverse volte nel corso degli ultimi due anni socialisti, l’ottusità del regime non si rese conto che ad ogni censura, sarebbe tornata più forte la voglia di scrivere.

Con l’arrivo dell’89, il muro acquisì di diritto il suo status di simbolo di pace e libertà. Stranezze dei tempi: muri da far cadere, muri da colorare, muri come divisione, muri come unione.

La fama del muro di Praga, caduto quello di Berlino, si estese tra le macerie dell’impero sovietico. Proprio a Mosca, sul suo esempio, nacque nel 1990 il muro di Tsoi, dedicato alla prematura morte della leggenda del rock underground Viktor Tsoi, che aveva infiammato gli scantinati degli anni Ottanta. Nella centrale via Arbat, un tempo il passeggio della nobiltà moscovita e poi sede delle gerarchie del Politburo, è diventato un landmark turistico cittadino.

La spettacolarizzazione del muro è parte integrante dell’economia di mercato. La logica turistica, in una città come Praga (da sei milioni di turisti l’anno), ne ha fatto un passaggio obbligato nelle guide dei viaggiatori. Ai vecchi lennoniani si sono aggiunti graffitari in vacanza, ai messaggi politici le semplici firme delle gite scolastiche, mentre il muro cambia versi e colori, pur mantenendo costante la sua “dedizione” all’ex-Beatles. Ma la decadenza del motivo politico è un tema che si ripropone, una riflessione obbligata sul significato originario e odierno della memoria storica, dei simboli e dei miti della disobbedienza civile. Forse spinti da una riflessione simile, da questa voglia di “attualizzare” il muro e liberarlo dal turismo, un collettivo di studenti ha deciso di fare il lavoro del vecchio regime: imbiancarlo. All’alba del 17 novembre, 25esimo anniversario della Rivoluzione di Velluto, gli studenti hanno cancellato il collage di graffiti e disegni, per lasciare una semplice scritta: “Wall is over”, il muro è finito, parafrasando la celebre canzone di Lennon contro la guerra in Vietnam, “Happy Xmas – War is over”. Così come la grande scritta su sfondo bianco “War is over” apparve prima del natale 1969 a Times Square, così si è svegliata Velkopřevorské náměstí il 18 novembre.

Il collettivo, dal nome “Pražská služba” (Servizi praghesi), ha dichiarato di aver compiuto il gesto per dare spazio alle voci della nuova generazione; una ripartenza. Gesto concordato e sostenuto dall’accademia del cinema praghese, la Famu, di cui sono studenti; “Senza la scuola”, ha dichiarato a Radio Praha lo studente Mikuláš Karpeta a nome del collettivo, “non avremmo fatto nulla”.

L’obiettivo artistico si è scontrato subito con l’epiteto di “vandali”: declamato, in primo luogo, dai legittimi proprietari.
In effetti, cosa ci sia al di là della parete non è interessato mai a nessuno, o quasi. Con il “fattaccio di piazza Velkopřevorské” si viene a scoprire che il muro non è totalmente un bene comune. È infatti proprietà del Sovrano Militare dell’Ordine di Malta, l’ordine religioso di origine medievale dei cavalieri ospitalieri – asimmetrie storiche degne di Praga! – che in un primo momento voleva sporgere denuncia verso gli studenti. L’idea è sembrata poi eccessiva, la denuncia ritirata, ma la reazione ha fatto inarcare non poche sopracciglia, che si son chieste quali siano gli interessi dietro l’attrazione-muro. D’altra parte, essere chiamati vandali è un’azione degna dei mattoni in questione, e in un certo senso, qui si chiude il cerchio.

Le polemiche si sono calmate, e il muro è tornato a parlare. Facile pensare che, prima di Natale, sarà già ricoperto di nuovi graffiti. Che siano le voci dei sogni della nuova gioventù, o quelle di turisti noncuranti, il muro di John Lennon rimarrà vivo. Come dice il primo messaggio dopo la passata di bianco, the wall is never over.

di Giuseppe Picheca