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Uno straordinario documentario ripercorre la vita del grande regista appena scomparso e il contesto sociopolitico in cui si trovò a lavorare

Questa è una storia che inizia il 19 ottobre 2010 quando, dopo quasi un anno di telefonate e di email, il regista indiano Shivendra Singh Dungarpur riesce a convincere Jiří Menzel a incontrarlo in un caffè di Praga. L’appuntamento diventa il primo di una lunga serie e fra i due nasce non solo un’amicizia ma anche un documentario di sette ore che esplora l’originalità del regista ceco e dei suoi film.

Il documentario, dal titolo “CzechMate: In search of Jiří Menzel” (2018), esamina più in generale il mondo della Nová vlna, la nouvelle vague cecoslovacca, il contesto sociopolitico che diede vita a quel movimento e la transizione del Paese ai giorni nostri, dopo la fine del regime nel 1989. Tutto questo ripercorrendo un periodo di decenni che parte dalla nazionalizzazione dell’industria cinematografica cecoslovacca nel 1948.

Per la realizzazione del progetto sono state intervistate ottantacinque personalità, fra cui nomi illustri del cinema mondiale, da Woody Allen a Ken Loach, passando per Emir Kusturica, István Szabó e Andrzej Wajda. Il risultato è il ritratto di un personaggio affascinante e la storia di un grande movimento culturale.

Per me fare film è semplicemente un lavoro, nient’altro” spiega Menzel nelle prime scene, dimostrando di avere sempre i piedi per terra nonostante la prestigiosa carriera. Sullo schermo gli spezzoni dei suoi film si alternano con le interviste ai registi protagonisti della Nová vlna: da Věra Chytilová a Miloš Forman e Vojtěch Jasný, senza dimenticare Ivan Passer, Juraj Jakubisko, Dušan Hanák, Jan Němec, Drahomíra Vihanová e Miroslav Ondříček. Ad eccezione dei due slovacchi Hanák e Jakubisko, tutti gli altri sono morti nei sette anni di riprese del documentario.

Lo stesso Menzel è scomparso all’inizio di settembre nella sua Praga. “Non esiste nessuna medicina per la vecchiaia” scherzava egli stesso nel corso delle riprese, durante le quali si lasciava andare ai ricordi con entusiasmo e raccontava il periodo della Nová vlna parlandone come del “miracolo del cinema cecoslovacco”. Il miracolo, o anzi il paradosso, come ha detto il critico Antonín J. Liehm, era che quei film “erano finanziati dallo Stato, quello stesso Stato che i cineasti spesso criticavano nelle loro pellicole”.

Per Němec, altro maestro della cinematografia degli anni Sessanta, quel periodo rappresentò una fase di debolezza del regime, durante la quale film, musica e letteratura erano soggetti a un minore controllo.

Menzel non esita a elogiare i suoi insegnanti della leggendaria Famu, la scuola cinematografica praghese dalla quale uscirono tutti i talenti di quel movimento, fra cui anche lo scrittore Milan Kundera e il regista Otakar Vávra. Quest’ultimo, spesso soprannominato “il padre del cinema cecoslovacco”, rimane una figura controversa ancor oggi, per la sua presunta disponibilità ad adattarsi al regime comunista e alle sue pretese, benché questa tesi nel documentario venga smentita da Menzel e persino da Agnieszka Holland. La regista polacca, una dei tanti stranieri formatisi alla Famu, racconta di avere scoperto, quando furono desecretati gli archivi della polizia segreta del regime, di aver potuto lavorare proprio grazie all’intercessione di Vávra presso le autorità e al fatto che, per togliere il sospetto di attività sovversiva, egli la definì “una buona comunista”.

Chi conosce la filmografia di Menzel non si meraviglierà neppure delle sue parole al miele per lo scrittore Bohumil Hrabal con cui collaborò spesso. “Hrabal passava ore nelle birrerie ad ascoltare le “sciocchezze” degli altri, per poi usarle nei suoi libri, nei quali cose poco importanti acquistano una certa importanza”.

La qualità di scrivere cose buffe, ma che hanno una certa tristezza e profondità, è stata spesso attribuita anche a Menzel, nonostante il regista abbia dichiarato, con modestia, di non essere stato mai in grado di trasmettere quel sentimento “hrabaliano” sul grande schermo e di ritenere addirittura che fosse impossibile adattarlo per il cinema.

Non tutti saranno d’accordo con queste opinioni di Menzel ma è evidente che la sua filmografia si può dividere in due categorie: da un lato i film tratti dalle opere di Hrabal, dall’altro quelli sceneggiati dal popolarissimo Zdeněk Svěrák. Forse, rispetto ai primi, le sue collaborazioni con Svěrák, fra cui “Il mio piccolo villaggio” (1985) e “Il soldato molto semplice Ivan Chonkin” (1994), sono caratterizzate da uno stile e un’atmosfera diversi, meno lirici e tristi ma con più elementi comici e ottimismo. Questo spiega anche il successo di pubblico e non è un caso che “Il mio piccolo villaggio” sia stato votato in un sondaggio di Novinky del 2007 come il miglior film ceco di sempre.

Nel documentario di Dungarpur non mancano le occasioni di riflessione sulla vita, le passioni e i ricordi di Menzel. “Non ho mai voluto sposarmi. Quanto sono stato scemo”, scherza parlando di uno dei suoi temi preferiti, le donne. In un’altra sequenza si mostra perplesso per l’insistenza del cineasta indiano: “venti ore dei miei sproloqui e vuoi farne un film?”.

C’è poi un momento nel quale il regista si commuove, quando torna alla casa della sua infanzia, nel quartiere praghese di Strašnice. “Da quel balcone ho visto precipitare un aereo dagli Alleati” ricorda, raccontando di quando era bambino.

E non mancano gli aneddoti divertenti, come quando parla dell’incontro con Hitchcock oppure quando ricorda la tattica utilizzata nel girare la famosa scena erotica dei timbri in Treni strettamente sorvegliati (1966) per evitare il taglio della censura. A proposito del suo amico Miloš Forman, Menzel confessa di aver avuto inizialmente una certa avversione per la sua esuberanza fastidiosa e per il bell’aspetto che gli invidiava un pochino. Cambiò invece opinione dopo la visione di “L’asso di picche” (1964), e “Gli amori di una bionda” (1965), quando si convinse che “Forman era genio, una persona molto più profonda di quanto immaginavo a prima vista”.

L’ambiziosa opera di Dungarpur non trascura nemmeno i giorni che portarono alla Rivoluzione di velluto e alla successiva transizione verso la democrazia. Ricordi di gioia per una generazione di cineasti che per tanti anni erano stati costretti a fare sacrifici e compromessi per poter lavorare. Ma il passaggio al capitalismo rappresenta anche un boccone amaro per alcuni di loro, in particolare per i registi slovacchi. “La società finalmente era libera ma al contempo è giunta la privatizzazione dell’industria cinematografica” afferma Eduard Grečner. “Oggi non riceverei un soldo per girare “Drak sa vracia” (The Return of Dragon), mentre durante il regime, contro il quale ho sempre lottato, non ho mai dovuto preoccuparmi dei costi” ricorda Grečner.

Il suo parere viene ripetuto dal grande Juraj Herz il quale spiega che “il regime comunista ci limitava parecchio ma non c’era mai un problema di finanziamenti”. Ivan Passer suggerisce anche che le restrizioni incitavano i registi ad essere creativi facendo riferimento alla famosa dichiarazione di Orson Welles che “un po’ di oppressione è buona per l’arte”.

Il documentario diventa così un viaggio straordinario nella storia di un piccolo Paese come la Repubblica Ceca, con una tradizione cinematografica impressionante, che si conclude nel comune di Loděnice, dove Menzel ed il cast di “Treni strettamente sorvegliati” omaggiano il film, a più di 50 anni dalla sua uscita.

In definitiva, per chi voglia conoscere il vero Menzel e il cinema cecoslovacco, non esiste un’introduzione migliore del documentario di Dungarpur. Chi invece già lo conosce verrà colpito comunque dall’ampio respiro dell’opera che ha profondità e proporzioni inedite per uno studio sulla Nová vlna.

di Lawrence Formisano