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Quattro anni dopo la demolizione dell’Hotel Praha, il complesso Transgas sulla Vinohradská a Praga riporta all’attualità il tema della salvaguardia in Repubblica Ceca di questo patrimonio dell’architettura

Sono passati oltre sessant’anni da quando le proposte tranchant di Alison e Peter Smithson scuotevano il mondo della critica inglese con residenze londinesi da realizzare «con l’alto standard di una costruzione elementare, come un piccolo magazzino», servendosi per la prima volta del termine ‘brutalismo’*. Eppure, a distanza di tanto tempo la controversa corrente orientata a superare il Movimento Moderno fa ancora parlare animatamente di sé. Nonostante gli edifici brutalisti punteggino grossomodo l’intero globo terraqueo materializzando – è proprio il caso di dirlo – uno dei momenti più prolifici della storia dell’Architettura del secondo Novecento, le sue forme sono ancora oggi divisive.

Una tecnologia costruttiva ormai matura regalava agli architetti tra gli anni Cinquanta e Settanta una libertà espressiva mai vista prima. Prevalentemente grazie alla versatilità del calcestruzzo armato, si osavano nuovi spazi e sperimentazioni formali nelle quali struttura e decorazione si fondevano in una ruvida e maestosa dignità. Una scabra quiete e una solenne imponenza orgogliosamente mostrate al costo di malcelate smorfie e pungenti elogi, come quello che il Principe Carlo riservò al capolavoro di Lasdun sulla South Bank londinese, descrivendolo come «un’ottima via per costruire una centrale nucleare in mezzo a Londra senza che nessuno possa obiettare». Mai del tutto sopito, il dibattito vede ancora schierarsi nettamente il pubblico in estimatori e perplessi riguardo a questi giganti di calcestruzzo, acciaio e vetro che della “verità” hanno fatto la loro bandiera.

In equilibrio tra etica ed estetica, una tale laconica dichiarazione d’intenti non dovrebbe essere dimenticata nel valutare le ragioni che nel dicembre 2017 hanno portato oltre un centinaio di persone a manifestare contro la possibile demolizione del palazzo Transgas di Praga, capitanate da uno dei progettisti, Václav Aulický.

Il timore dei manifestanti ha trovato loro malgrado conferma nell’avvio delle procedure per la demolizione nel luglio scorso, dando immediatamente impulso ad una petizione sul noto sito Change.org nel tentativo di ribaltare la decisione. I promotori di questa iniziativa temono infatti che il complesso affacciato sulla Vinohradská segua il destino di altri edifici che nell’ultimo decennio hanno lasciato spazio a nuove urbanizzazioni, perdendo così un’altra importante testimonianza del brutalismo cecoslovacco. Tra questi si ricordano il celebre Hotel Praha sulla collina di Hanspaulka e la centrale termica dell’insediamento sperimentale Invalidovna a Karlín con la sua copertura paraboloide – entrambi realizzati in calcestruzzo. Stessa sorte anche per il centro commerciale Ještěd a Liberec e il palazzo dei telefoni a Dejvice – quest’ultimo opera degli stessi autori del Transgas e solo parzialmente demolito – entrambi dotati di interessanti rivestimenti metallici frutto di contaminazioni stilistiche.

Costruito tra il 1972 e il 1978, il complesso Transgas prende il nome dall’omonimo gasdotto di cui è stato cuore pulsante. Da qui, avvolti in una facciata composta da diciottomila blocchetti di granito da pavimentazione e desolidarizzati dal suolo per smorzare le vibrazioni dei tunnel ferroviari sottostanti, due mainframe controllavano l’intera infrastruttura capace di approvvigionare la Germania di gas ucraino. Alle spalle del muto e stentoreo edificio di controllo si ergono due torri vetrate di nove piani con una vistosa cornice d’acciaio, sede della compagnia e del Ministero dell’Energia, nelle quali la fusione tra una concezione brutalista della materia, dello spazio e dettagli oscillanti tra postmoderno ed high-tech conferma l’unicità del complesso. La consapevolezza della sua delicata collocazione urbanistica – sul limitare di due differenti tessuti urbani – emerge dalla cura, dalla permeabilità degli spazi esterni, dalla presenza di servizi e dai prospetti delle torri, la cui altezza eguaglia quella del cornicione dell’ottocentesco Národní Muzeum che sorge nell’isolato accanto, cercando un dialogo.

Le parole del Principe Carlo sembrano riecheggiare amaramente se si pensa alla posizione dell’edificio. Se da un lato ciò offre argomenti ai detrattori di questo stile e ai promotori della demolizione, dall’altro la ricerca di dialogo con la città preesistente, lo zelo e la contezza con cui è risolta l’intera operazione in un contesto così delicato sono sintomo di audacia e di un potenziale ancora inespresso – qualità proprie di un capolavoro. Inoltre, il Transgas non è l’unico edificio ascrivibile al brutalismo in una posizione così centrale della città. Basti pensare al Nová Budova Národního Muzea, il “nuovo edificio” del Museo Nazionale, considerato un’icona del superamento del moderno praghese, che facendo tesoro del Costruttivismo di El Lissitzky e dell’esperienza cubista sembra quasi anticipare l’architettura di Koolhaas. Le ampie vetrate e le titaniche colonne nere del ‘grattacielo orizzontale’ progettato da Karel Prager interpretano una materialità tipica dell’esperienza cecoslovacca che si riflette nel Transgas e in molte altre polarità, come la stazione ferroviaria a Havířov, in Moravia-Slesia.

Profondamente radicato nel legame tra brutalismo e desiderio d’identità nazionale è anche il rinomato teatro praghese Laterna Magika. Tardo esempio di brutalismo, ma primo esempio mondiale di teatro multimediale – ideato da Radok e Svoboda per l’Expo 58, il volume alle spalle del Teatro Nazionale mostra con orgoglio gli oscuri ed estesi rivestimenti modulari e vetrati giocare con ombre, nuvole e riflessi in un susseguirsi d’intersezioni di piani.

Forte di un’identità peculiare emersa con il ‘68 di cui intende farsi portatore, il brutalismo cecoslovacco si spinge oltre i confini nazionali, facendo dell’Ambasciata Cecoslovacca a Berlino il suo manifesto. L’imperscrutabile volume dalle finestrature color bronzo è stato un successo celato ai più sino alla caduta del regime per il legame dei progettisti – i coniugi Machonin – con la Primavera di Praga. Disegnato per ospitare oltre duecentocinquanta addetti, il gigantesco edificio oggi semivuoto conserva intatti gli arredi originali, offrendo ai visitatori l’opportunità di un tuffo nel passato.

La complessità della volumetria e la continuità della facciata con le grandi vetrate diviene il marchio dei coniugi Machonin anche in patria, come esemplificato sia dal Kotva Department Store – altro colosso brutalista in dialogo con la Città Vecchia – sia dal tardivo centro commerciale DBK. Le superfici dei Machonin sembrano tributare un pioniere del brutalismo cecoslovacco, l’Hotel Intercontinental. Affacciato sulla Vltava all’imbocco del Ponte Čech, le sue superfici in cemento rigato ne uniformano la volumetria, fortemente segnata dalla ricerca della sincerità e di una maggiore funzionalità degli spazi.

La peculiare declinazione dell’esperienza brutalista in Cecoslovacchia è stata specchio di un’identità maturata con la Primavera di Praga, oggi riconosciuta da architetti e giovani appassionati che si adoperano per la salvaguardia di edifici come il Transgas o la stazione di Havířov. Per evitare che il destino dell’Hotel Praha si ripeta è opportuno chiedersi quali siano le possibilità di tutela e impiego di un’eredità che attualmente rischia di scomparire. Non resta che domandarsi se una ricostruzione digitale – come proposto da Margaret Hodge per i Robin Hood Gardens degli Smithsons – o la possibilità di tangere un pezzo d’identità nazionale in un museo, come se si trattasse dei marmi del Partenone esposti al Národní, possano davvero bastare.

di Alessandro Canevari e Claudio Poddie

*Diffusosi tra i giovani architetti negli anni Cinquanta, il brutalismo è un atteggiamento progettuale profondamente radicato nella sensazione di stallo che permeava la cultura architettonica negli anni immediatamente a ridosso della fine della Seconda Guerra Mondiale. Rivendicare il ruolo estetico delle istanze funzionali e strutturali per conferire nuovi significati formali ai materiali permette un deliberato superamento del Movimento Moderno, smascherandone l’uso unicamente retorico di tali temi. L’esibita chiarezza formale di strutture e le superfici ruvide spiegano il nome di questo atteggiamento, derivato dal francese ‘béton brut’ (letteralmente ‘cemento grezzo’) e decisamente distante dall’italiano ‘brutto’. Sebbene il termine sia stato impiegato per la prima volta nell’estate del 1945 dai britannici Peter e Alison Smithson, i primi edifici brutalisti sono stati completati solo nove anni più tardi.