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Václav Havel volle una festa rock per celebrare la fine del regime e lo stadio Strahov divenne una Giungla Urbana

Una pioggia torrenziale frusta una folla densa, immensa; sono in più di centomila, accalcati in quello che è lo stadio più grande del mondo, il Velký strahovský stadion di Praga. Arrivati come un fiume in piena non solo dalla capitale e da tutta la Cecoslovacchia, ma dall’Europa intera, come discepoli per una messa solenne o militanti per un comizio da democrazia popolare: ma questa sera un’altra fede li muove. Lì dentro tutti sanno che questa notte d’estate – è il 18 agosto del 1990 – si scrive una pagina della storia musicale e nazionale. La data non è casuale: fa rima con poco scarto con il ventiduesimo anniversario dell’invasione sovietica del 1968. E sono tutti increduli, bloccati in quell’attimo elettrico che precede, sempre, l’inimmaginabile. Quando all’improvviso il buio denso è squarciato da un cono di luce. Il silenzio si disfa in boato. E come un miraggio incarnato, Keith Richards, in blu jeans e giacca rosa, comincia a sfregare le corde della sua chitarra. Le note di Start Me Up incendiano lo stadio, sventrano anni di silenzio e oppressione con la forza selvaggia del sound londinese. Poi arriva lui, il baronetto, la furia, l’icona, in cappotto rosso sprint, eccolo Mick Jagger, che schizza da una parte all’altra del palco, vibra e si presenta gridando: “Dobrý večer, Praha!”.

Sono le nove e mezza di sera e Praga vive allora uno dei suoi primi, intensi orgasmi rock. Benvenuti nell’Urban Jungle tour: niente sarà più come prima. Da giorni una voce correva in città: “Tanks are rolling out, the Stones are rolling in”, ovvero: “Fuori i carri armati, dentro Jagger e compagni”. Uno slogan che ha la forza di un ritornello furioso, di una liberazione riuscita. Via il rumore dei cingoli sovietici, ora vibrano le chitarre elettriche: musica, edonismo e trasgressione. E la linguaccia irriverente degli Stones, simbolo di uno stile di vita sfacciato, domina da giorni la Città vecchia. Proprio lì, nel vicino parco di Letná, dove per anni una minacciosa statua di Stalin aveva simboleggiato l’autorità repressiva della dittatura. Ma per immaginare cosa possa essere stato quel primo, storico concerto praghese, serve fare un passo indietro. Dopo l’invasione sovietica, che falcia manu militari la “Primavera” del 1968, per oltre vent’anni la musica occidentale era diventata un pericoloso mezzo di sovversione dell’ordine costituito, merce pericolosa e vietata. Solo poche registrazioni di cattiva qualità, spesso provenienti dall’Ungheria, circolavano sottobanco. Cassette con estratti di trasmissioni radiofoniche inglesi, che passavano di mano in mano, merce rara e preziosa, che per gli alti dirigenti del partito comunista non erano altro che pericolosa propaganda occidentale. Degli Stones filtra poco più di qualche traccia. Per questo la fine del Comunismo, che porta alla presidenza l’uomo simbolo della resistenza al regime, Václav Havel, è una svolta tanto politica quanto estetica e sociale. Cambiano usi, modi, costumi… e suoni. Ed è proprio il nuovo presidente l’artefice dell’operazione Stones. Lui che da grande appassionato di musica occidentale ha voluto offrire a Praga il suo concerto storico. Non deve stupire se si pensa che Havel aveva pensato di offrire a Frank Zappa un incarico ufficiale di consulente del ministero della Cultura e che nell’aprile del ‘90 era stato intervistato da Lou Reed per l’edizione americana di Rolling Stone. Sempre lui che durante un viaggio a New York aveva visitato il mitico club Cbgb, tempio della musica punk nel Lower East Side di Manhattan.

Per l’organizzazione dell’evento di Praga ci vollero un milione e mezzo di dollari, cifra che venne pagata da due grandi sponsor e una serie di aziende minori. In quei giorni circola persino la voce che Havel, pur di averli a Praga, sarebbe disposto a pagare 50 mila dollari di tasca sua per finanziare l’operazione, ma alla fine non fu necessario. I Rolling Stones suonarono gratuitamente, “per dare un contributo alla conquistata democrazia cecoslovacca” come scrissero i giornali dell’epoca. Parte dei proventi andarono al Výbor dobré vůle (il Comitato della buona volontà) la fondazione istituita pochi mesi prima da Olga Havlová, la moglie del presidente.

Lo Stadio, che sino a poco tempo prima veniva utilizzato per le grandi manifestazioni ginnico-propagandistiche del regime comunista, avrebbe potuto contenere 200 mila persone, ma la capienza venne ridotta alla metà per motivi di sicurezza. Costo del biglietto: 250 corone. Si trattava di circa un quarto rispetto ai prezzi applicati nei paesi occidentali nelle altre date del Tour, ma comunque una cifra non indifferente per la Cecoslovacchia del tempo, dove gli stipendi medi superavano di poco le tremila corone.

Con gli Stones i primi contatti avevano avuto luogo nell’aprile del 1990 ma il contratto viene firmato solo il primo agosto. I tempi sono comunque strettissimi, poco più di due settimane per preparare il più grande concerto rock che il Paese avesse mai visto. Ma quando si scrive la storia, tutto è possibile. E così sia. Il giorno determinato tutto è pronto per l’evento del decennio.

Certo, a Praga negli anni Ottanta avevano già calcato il palco Tina Turner, Elton John e i Depeche Mode, e subito dopo la Rivoluzione di velluto si erano esibiti Frank Zappa e Lou Reed, ma gli Stones sono altro, sono il Rock. Tuttavia, per la band londinese il megaconcerto di Praga non era una prima assoluta oltrecortina. Jagger e compagni avevano già suonato nell’aprile del 1967 sul palco del Palazzo della Cultura di Varsavia. Un concerto che in perfetta sintonia con il loro stile crea disordini e polemica. Da una parte lo show fu fortemente ostacolato dalle autorità britanniche che temevano fosse un tentativo sovietico di sdoganare il comunismo presso i giovani occidentali e dell’altra si ricorda ancora oggi per i violenti scontri all’esterno del palazzo, con la polizia polacca che fa abbondante uso di manganelli e lacrimogeni per tenere a bada i tanti fan senza biglietto.

Ma torniamo a noi. A Praga. Qui niente manganelli, né violenza. Indifferenti alla scaramanzia, gli Stones arrivano nella capitale il giorno prima del concerto, il venerdì 17, provenienti dalla Germania sull’aereo personale di Havel. La band alloggia all’Hotel Palace ed è trattata con ogni favore: le loro richieste per le camere d’albergo sono tutti esauriti, persino le tende nere che avevano richiesto alle finestre. Diverse ore prima del concerto, i cinque membri degli Stones incontrano il presidente nella sua residenza ufficiale al Castello di Hradčany. Proprio lì dove sino a qualche mese prima regnava Gustav Husák, ultimo capo di Stato comunista, circondato da filo spinato e da soldati con mitra, ora il presidente drammaturgo si affaccia al balcone con i membri della band più ribelle del mondo dopo avere ricevuto in regalo dei bomber con la linguaccia del gruppo. Poi la pioggia comincia a battere la città. Lo stadio si riempie. Gli Stones sono introvabili. Un primo gruppo apre la serata, poi un secondo. E se fosse tutta una messa in scena? No, in quella notte d’agosto l’inimmaginabile diventa realtà. E un’onda sonora da mezzo milione di watt spazza via ogni dubbio: la musica si sente in tutta Praga. E quella notte la band londinese brilla come poche altre volte, dando vita a uno show scatenato, di due ore e venti minuti con strabilianti effetti scenici e ventitré pezzi in scaletta: Sympathy for the Devil, Street Fighting Man, Gimme Shelter, It’s Only Rock ‘n Roll (But I Like It), Brown Sugar, Jumpin’ Jack Flash e il gran finale con Satisfaction.

Un’apoteosi per loro e una consacrazione per il presidente cecoslovacco. Al termine del concerto, mentre migliaia di spettatori abbandonano lo Stadion, i Rolling poco dopo la mezzanotte partono per Londra, dove li attendeva la settimana successiva un concerto a Wembley.

Ma mentre sono ancora in viaggio un telegramma inaspettato e ormai mitico li raggiunge: “La vostra musica è un inno che rima con tutto ciò per cui mi batto con la mia vita e la mia opera”. Firmato: il presidente rocker.

di Edoardo Malvenuti