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La vita eccezionale del regista di Ostrava, il quale emigrò in Inghilterra agli albori dell’Olocausto, diventando prima uno dei fondatori del Free cinema inglese, poi un simbolo del cinema americano degli anni ‘70 e ‘80

Un maestro di statura internazionale, rimasto sino a pochi anni fa pressoché sconosciuto fra i connazionali. Parliamo di Karel Reisz, insieme a Miloš Forman il regista ceco più significativo di tutti i tempi, un grande che ebbe il singolare destino di non aver mai lavorato nella sua patria di origine.

Karel, nato a Ostrava nel 1926, lasciò infatti la Cecoslovacchia nel 1939, quando il padre – un agiato avvocato di origini ebraiche – decise di metterlo in salvo con il fratello maggiore Pavel su un treno in partenza per la Gran Bretagna, sottraendoli alla minaccia nazista e strappandoli al destino della Shoah. I treni della salvezza erano quelli della leggendaria operazione Kindertransport, organizzati in prossimità della guerra dal filantropo britannico Nicholas George Winton.

Dopo aver compiuto gli studi in una scuola di Reading (50 km da Londra), e una breve parentesi nella Royal Air Force, una volta finita la guerra rientrò in patria per scoprire la sorte infausta dei suoi genitori e di tutti i familiari, sterminati ad Auschwitz. Così la decisione di tornare nella sua nuova patria e di stabilirsi definitivamente in Inghilterra, dove si laureò in chimica all’Emmanuel College di Cambridge, per insegnare poi alla Grammar School di Marylebone, prima di diventare giornalista.

Il suo vero sogno era però il cinema. Prima cominciò a scrivere acute recensioni per la rivista dell’Università di Oxford, Sequence, assieme a Lindsay Anderson e Galvin Miller. Successivamente per Sight and Sound, la rivista cinematografica più rinomata del Regno Unito. Con Anderson formò una collaborazione che durò anni, prima come giornalisti, poi come colleghi dietro alla cinepresa.

Reisz si fece conoscere con il libro La tecnica del montaggio cinematografico, un testo fondamentale, utilizzato da futuri maestri come Truffaut e Resnais, ma la sua passione e la voglia di creare portarono i primi frutti concreti quando cominciò a girare cortometraggi, grazie al supporto dell’Experimental Film Fund del British Film Institute. Fu così che contribuì a creare – insieme a Lindsay Anderson e Tony Richardson, senza dimenticare la scrittrice e regista italiana Lorenza Mazzetti – il Free Cinema, un movimento non solo cinematografico, ma anche culturale e sociale. L’impronta era nettamente di sinistra, con l’atteggiamento implicito di credere nella libertà, nell’importanza dell’individuo e nel significato della quotidianità.

In principio con film documentari, come Momma Don’t Allow (di Reisz e Richardson), per poi arrivare al film chiave del movimento e a una svolta nel cinema inglese: Sabato sera, domenica mattina (1961).

Fino all’uscita del capolavoro del regista slesiano, il cinema britannico aveva praticamente trascurato la vita della classe operaia, rappresentata solo da personaggi minori e mai protagonisti. Sabato sera, domenica mattina, invece, il primo lungometraggio di Reisz, sconvolse il pubblico dell’epoca con il linguaggio rozzo ed il modo esplicito, almeno per l’epoca, in cui veniva raffigurata l’avventura extraconiugale fra il protagonista Jimmy, un operaio, e la moglie di un suo amico. Un film sociologicamente e politicamente azzeccato, di uno straordinario successo, sia di critica che di pubblico, che lanciò la carriera dell’attore principale Albert Finney. Curiosamente, ci volle uno straniero per rivitalizzare e cambiare le tendenze del cinema inglese, oltre a dar vita a una delle onde cinematografiche più significanti dell’epoca con la Nouvelle Vague francese e le nuove onde cecoslovacche e polacche.

Fu l’inizio della prima fase d’oro della sua carriera, e seguirono i film La doppia vita di Dan Craig (1964), sempre con Finney, Morgan matto da legare (1966) ed Isadora (1968). In Morgan si vedeva la vera genialità del cineasta, con una trama che segue un uomo sfrenato che tenta di riconquistare la moglie per evitare il divorzio. Usa tutti i mezzi, fino a travestirsi da gorilla, creando caos ovunque. L’attrice principale degli ultimi due film citati, Vanessa Redgrave, vinse il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes, ma l’insuccesso commerciale sprofondò l’autore in un lungo periodo di silenzio.

Quando riprese la sua attività nel 1974 si trovava negli Stati Uniti, dove sperava di poter intraprendere progetti più ambiziosi. Reisz non steccò il debutto americano, 40.000 dollari per non morire, dotato di una delle migliori performance di James Caan, qui nei panni di un professore di inglese di New York, amatissimo dai suoi studenti, che combatte contro la dipendenza dal gioco e finisce in una situazione disperata a causa di un grosso debito. La sua seconda avventura statunitense fu l’altrettanto efficace e disperato film Guerrieri dell’inferno (1978), basato sul romanzo Dog Soldiers dello scrittore Robert Stone. Reisz dimostrò nuovamente la sua bravura nella direzione degli attori ottenendo un’ottima interpretazione da Nick Nolte in uno dei tanti film del decennio legati alla guerra del Vietnam, caratterizzato da una tensione fatta di continuo pericolo e tante svolte.

Nonostante avesse già ottenuto stima e notorietà, il suo più grande successo internazionale fu La donna del tenente francese (1981), un melodramma tratto dall’omonimo romanzo di John Fowles e sceneggiato da Harold Pinter, interpretato dalla già celebre Meryl Streep e dal quasi esordiente Jeremy Irons.

Se le opere successive segnarono il suo declino, Reisz comunque aveva già contribuito a influire in modo determinante sulla storia del cinema, specialmente in Inghilterra, dove creò le fondamenta del futuro del cinema nazionale e le condizioni nelle quali registi come Ken Loach e Mike Leigh sono emersi successivamente.

Sorprende però la mancanza di attenzione prestata alla sua filmografia in patria, almeno fino alla sua morte il 25 novembre 2002. Il maestro è stato riscoperto anche grazie al documentario Karel Reisz, ten filmový život,diretto da Petra Všelichová nel 2012, poi trasmesso su Česká televize. In un’ora ripercorre tutta la sua vita a partire della sua tragica infanzia, e comprende una serie di interviste illuminanti con collaboratori, figli e soprattutto con il fratello Pavel ad Ostrava, dove torna per parlare della loro infanzia spensierata nella città “Cuore d’acciaio della Repubblica”. Non mancano gli episodi sui suoi primi giorni in Inghilterra come la sua riluttanza a cambiare abitudini culinarie, ed il suo rifiuto di anglicizzare il suo nome da Karel a Charles come sua madre gli propose di fare nella Stazione di Praga, l’ultima volta che lo vide, prima dell’addio.

Ma l’asso nella manica di Reisz era proprio questo; era troppo ceco per essere inglese e quasi troppo inglese per essere ceco, e le sue origini gli davano una visione unica dei luoghi dove viveva e lavorava, che fosse l’Inghilterra o gli Stati Uniti.

Chi ha avuto la fortuna di lavorare con Reisz ha raccontato di una signorilità inglese, ma di una “meticolosità più tipicamente cecoslovacca”, come affermò Vanessa Redgrave in seguito alla sua morte. Col senno di poi si nota che il filo conduttore nelle sue opere è stata la tendenza ad usare protagonisti ribelli, incapaci di seguire i dettami della società, un tema presente anche in vari film cecolovacchi della Nová Vlna all’epoca. Potremmo dunque vedere Reisz come una specie di ponte, o legame, fra il cinema dell’Ovest e il cinema dell’Est, al tempo della cortina di ferro.

di Lawrence Formisano