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Un’appassionante controversia sul ‘68 praghese tra due giganti della storia ceca

«È stata una vita che assomigliava veramente ad un’opera d’arte». È l’elogio postumo che Milan Kundera dedica al solo ceco che per fama internazionale lo raggiunge, lo supera: il drammaturgo, il resistente, il primo presidente, Václav Havel, scomparso nel 2011. Galanteria dovuta o ammirazione vera per questo personaggio eroe della Rivoluzione di velluto? Una cosa è certa: pochi come Havel e Kundera hanno legato a doppio filo, in modo così diverso, i loro nomi alla storia contemporanea del loro Paese. Sono i cechi che tutti conoscono, e a ragione: Milan Kundera, il grande romanziere emigrato, il francese, “quello dell’Insostenibile leggerezza dell’essere”, scrittore in aria di Nobel. E poi Havel, l’intellettuale dissidente, lui che è rimasto in patria ed è diventato il primo presidente della Cecoslovacchia liberata dal Comunismo prima, poi della Repubblica Ceca. Grande uomo politico, certo, ma anche lui scrittore, drammaturgo e saggista. Un duo atipico: Kundera, nato in una famiglia di classe media morava, Havel in una ricca famiglia boema. Kundera da giovane è un comunista leale, Havel rimane sempre lontano dal partito, Kundera, o lo sguardo pessimista sulla natura umana, Havel, autore di saggi che ispirano ottimismo, Kundera che abbandona il suo Paese nel 1975 e riesce in una brillante carriera come scrittore in Francia, Havel che resta, negli anni duri della normalizzazione, vive e resiste da dissidente, fa della prigione, per arrivare alla testa del Paese dopo la Rivoluzione di velluto.

Due destini distanti, diversi, ma stretti intorno a quella che in modo diverso resta una storia nazionale condivisa. Ed è proprio sul senso storico di una grande esperienza cecoslovacca, la Primavera di Praga, che ormai cinquant’anni fa i due si sono ingaggiati in una querelle a distanza, un dibattito sul Destino ceco – Český úděl – questo il titolo dell’articolo pubblicato sulla rivista Listy, nel numero di Natale 1968 e firmato Milan Kundera. Una riflessione storica e politica sul senso, tra le altre cose, del ‘68 praghese. Un pensiero che fa reagire Havel. La risposta arriva qualche settimana più tardi con l’articolo Destino ceco? – Český úděl? – pubblicato nel febbraio del 1969. Una diatriba che ha un terzo atto: Kundera risponde di nuovo, duro, drastico, e mette il punto finale al dibattito con l’articolo Radicalismo ed esibizionismo. Tre scritti decisivi: che fanno discutere, reagire, e saranno commentati dai più grandi intellettuali cechi. Un’appassionante controversia, che è discussione storica e filosofica su un evento straordinariamente unico come la primavera di Praga. Ma c’è di più: in gioco c’è l’attestazione del fallimento di un certo tipo di comunismo politico e l’affermazione di una prospettiva socialista nuova e unica, inaugurata a Praga ed esempio per tutto il mondo.

Ma andiamo con ordine. Il primo articolo di Kundera è pubblicato quando la Primavera di Praga è ormai sfiorita, dopo l’ingresso in Cecoslovacchia delle truppe del Patto di Varsavia il 21 agosto 1968. Ma l’autunno per Kundera non ha perso il suo vigore, anzi. «È successo infatti qualcosa che nessuno si aspettava: la nuova politica è riuscita a resistere a questo terribile conflitto. È vero che ha fatto dei passi indietro, ma non si è disgregata e non è crollata. Non ha ripristinato il regime poliziesco; non ha acconsentito all’incatenamento dogmatico della vita spirituale, non ha rinnegato sé stessa, non ha tradito i propri principi, non ha abbandonato i propri uomini; e non solo non ha perso l’appoggio della comunità, ma anzi proprio nel momento del pericolo mortale è riuscita a cementare attorno a sé tutta la nazione, dimostrandosi interiormente più forte rispetto al periodo che ha preceduto l’agosto ‘68». Un articolo come un grido (di gioia): per dire che tutto non è andato perso. E all’inizio fu veramente così, all’indomani dell’invasione sovietica, il tentativo di costruire un socialismo dal volto umano lascia spazio a una resistenza di ideali: le riforme non erano ancora state tutte stracciate, qualcosa di profondo era stato smosso e rinnovato.

A posteriori, sappiamo che la storia degli anni della normalizzazione sarà tutt’altro, ma un giudizio di questo tipo è iniquo. Utile è, piuttosto, rimettere la riflessione di Kundera nel suo contesto e rileggerla nel suo slancio orgoglioso e consapevole, utopistico, forse, ma decisa ad affermare l’importanza di un’esperienza di socialismo senza dubbio hors-norme. Anche a posteriori nessuno può negare che il risveglio della Primavera praghese fu qualcosa di incomparabile, che ha offerto una ragione di fierezza alla piccola nazione ceca. Una traccia nella Storia che permette di rigonfiare le vele ad un sistema, quello comunista, sfasciato dai suoi abusi, dagli orrori sovietici e dai modi dittatoriali che gli sono stati propri dappertutto.

Tra le diverse idee portanti del primo articolo di Kundera c’è anche quella della piccola nazione che lotta per trovare una giustificazione alla propria esistenza, e allo stesso tempo è garante di una differenza che resiste all’uniformazione imposta dai grandi Paesi. Così, ai suoi occhi la Cecoslovacchia è la possibilità concreta di una terza via che nega ad un tempo stalinismo e capitalismo. La storia è stata scritta a Praga. Ma per Havel, che risponde nel febbraio del 1969, gli argomenti di Kundera non sono altro che costruzioni illusionistiche, un vaneggiare cieco, sterile slancio patriottico che si serve di un tempo ormai passato e “chiuso” per giustificare, e glorificare, un presente già sfiorito, ormai grigio. Di più, anche quel passato, quell’esperienza, quel soffio di libertà che è stata la Primavera di Praga, non ha poi nulla di straordinario, al contrario è una semplice (quasi banale) parentesi di normalità, un passaggio breve e fugace di condizioni basilari di libertà, la “norma” dei paesi democratici.

Per Havel niente di straordinario sul fronte ceco, quindi, almeno nella sua espressione sessantottina. Per il futuro presidente un ritorno al passato si giustifica solo con una presa di coscienza della società di fronte ad un brutale intervento militare venuto a calpestare valori inalienabili, una consapevolezza utile a resistere. Per Havel i cechi sono responsabili del loro destino, la loro missione, ora che la dittatura è di ritorno, è assumerlo e cambiarlo. La risposta di Kundera arriva qualche settimana più tardi. È una sentenza che si vuole senza appello contro l’avversario: per lo scrittore di Brno, Havel con il suo discorso impregnato di sfiducia nel presente e nell’esperienza della Primavera praghese si sarebbe isolato in una torre d’avorio di giustezza morale, senza sporcarsi le mani di presente, di lotta ed orgoglio popolare utili a restare aggrappati a qualcosa di vissuto e straordinario. Così si chiude il dibattito Havel-Kundera: se la storia ha risposto a certe questioni sollevate, l’interpretazione del ‘68 cecoslovacco resta un dibattito aperto.

Un vincitore ed un vinto? Difficile e forse inutile tentare sentenze, certo è che Kundera ha scelto l’esilio, Havel la patria, la lotta, la storia nazionale l’ha scritta in prima persona: se un destino ceco c’è, è certo il suo.

di Edoardo Malvenuti