FacebookTwitterLinkedIn

Più che la dimora del concittadino illustre, del quale andare fieri, sembra piuttosto una casa degli spettri, il luogo dove è capitata una tragedia e davanti al quale si è soliti camminare con passi più veloci e con gli occhi bassi

Schermata 2015-05-26 alle 15.33.48

Per strada, volti intirizziti dal freddo e poca voglia di fermarsi a parlare, tanto più se a chieder indicazioni è uno straniero che cerca la casa di Jan Palach. Il villaggio di Svetaty si trova in Boemia centrale, poche decine di chilometri a nord di Praga, ed è da qui che, all’alba del 16 gennaio del 1969, quel giovane studente di filosofia partì alla volta della capitale per compiere il suo gesto estremo.
I passanti sono così spicci nel dare indicazioni, sbrigativi con le risposte, da far inevitabilmente pensare al rapporto, spesso complicato, che i cechi hanno coi loro eroi nazionali. In fondo è stato così anche con Vaclav Havel. Nei confronti di Jan Palach c’è forse anche un leggero senso di colpa, la sensazione di aver dimenticato presto quel ragazzo, taciturno e grande appassionato di storia, che a 21 anni si diede fuoco sulla Piazza Venceslao per destare la coscienza del suo popolo, per esortare la gente a non arrendersi davanti al processo di normalizzazione. La Cecoslovacchia era stata invasa pochi mesi prima dalle truppe del patto di Varsavia.
La casa, disabitata da tempo, si trova alcune centinaia di metri a nord della piazza principale, quasi ai margini del villaggio, circondata da un cortile e da erba siepi incolte. L’edificio è costeggiato da un canale. Per lunghi minuti l’unico segnale di vita è un gatto nero che gioca con cautela a nascondersi in un cespuglio ricoperto di neve. Tutto intorno il silenzio.
Jan qui abitava con la madre, il padre era morto da alcuni anni.
Su una parete c’è una lapide, ingiallita dal tempo, che recita: “Da qui Jan Palach andò incontro alla morte, per la per la libertà del popolo ceco”. Più che la dimora del concittadino illustre, del quale andare fieri, sembra piuttosto una casa degli spettri, il luogo dove è capitata una tragedia e davanti al quale si è soliti camminare con passi più veloci e con gli occhi bassi.
Quasi impossibile sbirciare all’interno per il ghiaccio che offusca il vetro delle finestre, ma è chiaro che da anni non se ne occupa più nessuno. Al primo piano una finestra è rotta e una tapparella cigola nel silenzio. Era la stanza di Jan. Vi si intravedono un lampadario datato e un po’ di carta da parati, di quella che doveva andare di moda nella Cecoslovacchia degli anni Sessanta
La casa dovrebbe essere di proprietà, oggi, di qualche lontano parente, che comunque non vive qui a Vsetaty, come spiega con poche parole un passante apparso da un ponticello. “Perché qui da noi, di loro, non abita più nessuno”, come se i Palach per questa comunità fossero ormai un corpo estraneo.
Da quanto se ne sa, l’unico fratello, Jiri Palach, ormai da tempo vive nel nord della Boemia e sono ormai anni che non si fa vedere da queste parti.
Poco più avanti una donna anziana. “Sì, certo che l’ho conoscevo. Jan era una classe avanti alla mia alle elementari. Ma per essere sincera non ci ho neanche mai giocato insieme, perché a quell’età… un anno in più vuol dire tanto… Era comunque uno scolaro normalissimo, come ce ne sono tanti”. Accanto a lei due bambini appena usciti dall’asilo. “Cosa racconterò un giorno miei nipoti di Jan Palach? Davvero non saprei. Sono passati ormai tanti anni. E i bambini di oggi sono attirati da altre cose, magari dal computer, dai giochi elettronici”.
Per tornare alla stazione ferroviaria, c’è un lungo viale, col marciapiede coperto dalla neve e dal ghiaccio. E’ quasi sera e procedono, in direzione opposta i pendolari che tornano a casa dal lavoro. Camminano frettolosamente, qualcuno si infila in una delle poche birrerie.
In attesa del treno, accanto alla biglietteria, una giovane insegnante, Lucie, pendolare al contrario che attende il treno per Praga. Laureatasi pochi anni fa nella storica Università Carlo, durante gli anni di studio chissà quante volte ha visto sulla facciata della facoltà di filosofia, la maschera mortuaria di Jan Palach, sulla piazza intitolata al suo nome.
“Con gli studenti certo, a lezione ne parliamo. Ma credo ci vorrebbe ben altro per far comprendere ai ragazzi la figura di questo nostro eroe nazionale. Sarebbe necessario intervenissero anche le famiglie, ma capita spesso che i genitori preferiscano non parlare di lui e delle circostanze storiche che portarono a quella tragedia. Anche i libri di scuola a queste vicende si riferiscono genericamente, senza entrare nei dettagli di questa parte della nostra storia, ancora così controversa agli occhi della gente”.
Il trenino, in ritardo di qualche minuto, parte, semivuoto, per Praga. Il convoglio è un locomotore con pochi vagoni e tanti anni di servizio alle spalle. Passa lentamente un grande ponte sull’Elba. Dai finestrini gli stessi paesaggi che vide Jan Palach durante quel suo ultimo viaggio. Prima di arrivare a Praga, il treno fa sosta in una decina di stazioncine e attraversa vaste radure con qualche isoletta di bosco. Alcuni caprioli e tante lepri corrono liberi sulla neve bianca.

L’idea di farne un museo
Negli ultimi tempi i giornali hanno parlato dell’iniziativa di un giovane grafico praghese, Jan Pouchart, deciso a portare avanti il progetto di fare della casa di Jan Palach, a Vsetaty, un museo. “Quasi non capisco come sia possibile che questa casa sia ancora in queste condizioni di abbandono, che a nessuno, prima di me, sia venuta l’idea di farne un museo, un luogo della nostra memoria nazionale”.
L’idea, per la quale è sorta l’associazione “Národ pohasl” (esiste anche una pagina su Face Book), è sostenuta da una serie di personalità, fra cui il ministro degli Esteri Karel Schwarzenberg, il monsignor Tomáš Halík, la Marta Kubišová (la cantante della Primavera di Praga). Anche il presidente Vaclav Havel, poco prima della sua morte, si è pronunciato a favore di questo progetto.