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Un libro, una mostra, un ritorno di fiamma: i cechi si appassionano alle storie dei ribelli di vent’anni fa

Anarchici e skinhead, squatter e skater, gruppi uniti dalla musica techno, rap, punk, metal, ma anche sprayer e appassionati di giochi fantasy. Queste sono solo alcune delle comunità, dette in ceco ‘kmeny’, che spopolavano nella Cecoslovacchia degli anni ‘90. Sottoculture che sono presentate nell’esposizione Kmeny 90, visitabile fino al primo ottobre alla Galleria Morava di Brno.

La mostra prende le mosse dall’omonimo libro scritto dal rapper ceco Vladimir 518, nome d’arte di Vladimír Brož che è anche illustratore, scenografo, autore di fumetti e graffiti. Non si tratta di un unico volume ma di una trilogia dedicata a questi gruppi alternativi che hanno fatto dello specifico stile di vita e abbigliamento, dei loro atteggiamenti e valori una questione sociale e politica, un segno d’appartenenza a una corrente di pensiero diversa da quella imposta dal loro tempo.

Nel 2011 Vladimir 518 decide di descrivere ventisei di queste comunità in un volume, Kmeny, che include testimonianze e interviste a chi le ha vissute in prima persona e oltre trecento fotografie. Il successo è inaspettato e tale che nel marzo 2016 Česka televize manda in onda l’omonimo ciclo di sedici documentari. Nel febbraio di quest’anno è invece il Teatro Nazionale di Brno a mettere in scena un libero adattamento teatrale del testo.

Nel 2013 nel frattempo è uscito il secondo volume, Kmeny 0. Se il primo fa riferimento a un arco di tempo ampio, questo è focalizzato solo sul periodo della normalizzazione (1969-1989) quando gran parte delle sottoculture s’inseriva nel cosiddetto underground, opposizione alla cultura ufficiale. Al loro sviluppo contribuirono le repressioni del regime comunista, la rigidità e il conservatorismo imperante, la chiusura verso ciò che arrivava dall’estero.

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Le comunità degli anni ‘90

A occuparsi della storia e dell’ambiente delle subculture degli anni ‘90 è il terzo libro, Kmeny 90, uscito lo scorso dicembre. Un decennio avvolto da un’aura di romanticismo, concepito come un periodo di massima libertà e spesso definito come “i nuovi anni 60” per la fioritura dell’intera società che cerca di rimettersi in moto grazie al rilassamento politico che seguì la Rivoluzione di Velluto. “È un decennio di ricerca, ingenuità ed entusiasmo” dice l’autore “un periodo chiave per molti motivi. Tuttavia non si può guardare tutto con lenti rosa”. Le risse in strada tra alcune comunità, in particolar modo tra skinhead e anarchici, erano all’ordine del giorno, come dimostrano alcuni filmati proiettati alla mostra.

Ad ogni modo la gioventù anticonformista assorbì nuovi impulsi dall’estero e li fuse in forme originali. Nacquero nuove comunità che con la loro estetica furono d’ispirazione per l’arte visiva e il design, altre scomparvero. Il tratto comune a tutte era infatti lo stretto legame tra il loro sviluppo e il contesto sociale; i dissidenti, ad esempio, erano un gruppo che perse senso dopo la rivoluzione del 1989. Altre categorie erano difficili da distinguere perché s’intersecavano e influenzavano a vicenda: i rapper si dedicavano ai graffiti, l’hip hop era tipico degli skater. “Ricordo che la scena free techno risucchiò molti graffitari, punk o rapper” testimonia l’autore che è stato parte attiva della corrente techno, come di varie altre. Dai suoi colleghi e amici sprayer è riuscito ad avere in prestito degli autentici black book. “È difficile trovarli esposti, sono segreti” spiega Vladimir 518, che ha preso il suo pseudonimo dal numero della legge che colpiva proprio gli sprayer. “Gli album e i disegni sono la cronaca personale dei writer. Un tempo li tenevano sotto chiave in posti segreti, avevano paura che li trovasse la polizia”. I primi writer erano poi metallari. “Proprio i loghi delle band metal hanno paradossalmente permesso la nascita della scena dei graffiti” continua il curatore. Loghi che occupano l’intera parete dedicata alla sezione metal.

“Siamo riusciti a mettere assieme materiali che rispecchiano al meglio gli anni ‘90” ha detto Vladimir 518 all’inaugurazione. Quegli anni che furono l’epoca delle serate danzanti che duravano fino a mattina e degli esperimenti con le droghe, di musicassette e walkman, dei poster attaccati alle pareti e dei nomi del proprio gruppo preferito stampati sulle giacche di jeans. Gli spazi dell’esposizione sono pieni di oggetti di culto, a partire dalla gigantesca cassa acustica che riempie la prima sala. Di fronte sono appese ruote decorate con spirali, quelle che gli organizzatori dei techno party facevano girare per ipnotizzare i fan e immergerli ancor più nella trance della musica. Tra le pagine del libro si scopre tra l’altro che il primo techno party ceco si tenne nel 1994 alla Casa municipale di Praga, o meglio nel Klub Repre situato nel suo sotterraneo. Ci sono poi giacche con toppe e borchie, i pattini a rotelle costruiti a mano dai primi skater, il campionatore Akai usato agli esordi da complessi sperimentali come i Tata Bojs, computer e console, macchine per la stampa e fotocopiatrici che allora erano l’equipaggiamento basilare di ogni clan visto l’incalcolabile numero di riviste e giornaletti stampati. Ci si può anche divertire a provare i giochi di allora sui cabinati a disposizione. Infine vanno citate le opere di due artisti formatisi tra le fila delle subculture: i ritratti fotografici di Václav Havel e Václav Klaus di Jiří David e la curiosa installazione di Krištof Kintera, un bambolotto che sbatte la testa contro il muro e i cui monotoni colpi fanno da sottofondo alla visita della Galleria.

Ma il pezzo forte dell’esposizione, l’installazione che non passa inosservata e fin da subito ha fatto discutere, è il carro armato dipinto di rosa dall’artista David Černý nel 1991, simbolo per eccellenza della libertà di parola di quel decennio. Giunto dal Museo Tecnico Militare di Lešany, dove ricorda il primo carro armato sovietico che entrò a Praga nel maggio 1945, occupa lo spazio di fronte alla Chiesa Rossa di Piazza Komenský. “Le azioni che si svolgevano su strade e piazze erano una parte integrante della libertà d’espressione degli artisti di quel periodo” ha detto il direttore della Moravská galerie, Jan Press. “Per questo abbiamo deciso di posizionare quest’opera iconica in un luogo pubblico e ricordare quell’atmosfera”. I pareri della gente sono discordi. “È una cosa insolita, questo sì, ma a me l’idea piace” dice Marek, di Brno. Di tutt’altra opinione Pavel: “Quell’infamante carro armato è il simbolo di una totale mancanza di rispetto verso i soldati dell’Armata rossa che sono morti per liberare la nostra terra dai nazisti, una profanazione ai monumenti ai caduti”. C’è poi chi non è d’accordo con la collocazione del veicolo; il movimento Žít Brno fa notare ad esempio che rovina la panoramica della centrale via Husova e non si sposa bene all’urbanismo del XIX secolo.

Le proteste non si sono limitate alle parole. Solo una settimana dopo la sua comparsa in città, il carro armato è stato coperto da un telo blu con la scritta Slušní lidé (Gente perbene), nome del movimento che ha rivendicato il gesto su Facebook con le parole: “Slušní lidé non si lasciano comprare dai tedeschi” e minacciando che si tratta solo dell’inizio delle proteste poiché il carro armato rosa “è uno scherno a tutti gli eroici liberatori e combattenti della resistenza”. Solo due giorni più tardi gli attivisti del Club militare di Brno ne hanno ridipinto una parte di quel verde che gli era proprio.

Comunque sia, ha fatto parlare e sicuramente ha portato non pochi visitatori alla mostra. L’inaugurazione, decretata l’evento di maggior successo nella storia della Moravská galerie, ha attirato talmente tanta gente che già nel pomeriggio c’era una coda di 50 metri davanti al museo. Nelle prime sette ore d’apertura è stata visitata da oltre duemila persone. Qualcuno commenta malignamente che il merito è dovuto al party e al concerto in strada organizzati per l’occasione che hanno attirato oltre seimila persone che non si sono lasciate intimorire nemmeno dalla pioggia.

Sicuramente avranno contribuito, come per altre iniziative, la nostalgia nel rivedere oggetti di un passato recente ma ormai quasi scomparsi e riassaporare quello spirito libero, passione e originalità che accomunavano ed erano un tratto tipico di quelle varie comunità che, come le tratteggia il coautore di Kmeny 90, Karel Veselý, “in un mondo che tende all’omologazione della vita, sono preziose isole di diversità”.

di Sabrina Salomoni