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Tra Cecoslovacchia  e Italia, la vita di un poeta-esule e la sua lotta per la libertà della parola”

Angelo Maria Ripellino: la morte di un praghese in esilio

di Alessio Di Giulio *

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“Praga ha avuto il suo scrittore esule: Angelo Maria Ripellino è morto”. Così Guido Ceronetti, il giorno dopo la morte di questo scrittore siculo-slavo-mitteleuropeo nato a Palermo il 4 dicembre 1923. Figura straordinaria di filologo slavista, di poeta tra storia e magia, di critico teatrale militante, di traduttore di poeti russi e cechi, di professore di letteratura ceca e russa all’Università di Roma, di testimone appassionato e partecipe alle vicende tragiche di Praga, di saggista dotto e antiaccademico. A Roma è allievo di Ettore Lo Gatto, il decano dei russisti, e di Giovanni Maver. Collabora giovanissimo al settimanale letterario Il meridiano di Roma e, fino al ’48, all’Unità. Si reca spesso a Praga e nel 1950 pubblica una Storia della poesia ceca contemporanea, che sembra voler competere con l’antologia di Renato Poggioli, Il fiore del verso russo. Nella stessa città conosce Ela Holchova, una studentessa, che sposa a Roma nel ’47. Al 1954 risale l’antologia ragionata della “Poesia russa del Novecento”(edita da Feltrinelli), che una decina d’anni prima era stato argomento della sua tesi di laurea. Sulla Fiera Letteraria cominciano ad uscire i suoi primi versi che contribuiranno a formare la prima raccolta poetica: Non un giorno ma adesso. Nel 1959 appare il saggio su Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia che con Il trucco e l’anima (Einaudi, 1965), Praga magica (Einaudi, 1973) e Saggi in forma di ballate. Divagazioni su temi di letteratura rusa, ceca e polacca (Einaudi, 1978), rappresentano i lavori più impegnativi del suo “mestiere di slavista”.

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Nel congedo della seconda raccolta di poesie, La fortezza d’Alvernia (Rizzoli, 1967), composte durante un soggiorno di cura nel sanatorio di Dobříš, dichiara: “Per anni e anni ho scritto e stracciato poesie, vergognandomi di scriverne. Il mio mestiere di slavista, la mia etichetta depositata mi relegarono sempre in una precisa dimensione, in un ranch, da cui m’era rigorosamente vietato di uscire”. Ma proprio “quand’ero un’ombra, un autunno già prossimo/ a svanire nei loculi ingordi del tempo”, nell’Alvernia boema – trasfigurazione immaginifica di un luogo dello spirito in cui l’inverno e l’averno vengono assimilati al paesaggio salvifico dell’Auvergne cantata da Brassens – Ripellino si scopre poeta. Un poeta nell’anima capace di esprimere poesia anche insegnando, traducendo, scrivendo di critica; un artista che non smetterà mai di credere nella funzione creatrice e liberatrice di forme dell’arte, nel potere evocativo e catartico della parola. Non stupisce, in questa inesausta tensione ad “agghermigliare la gioia della parola” nel tentativo di tenere a bada la morte, che proprio la pittura faccia da viatico ai più intensi slanci poetici. Scriverà infatti in Saggi in forma di ballate parlando dei dipinti di Toyen, Tichy e Čapek: “I ceri delle tempeste accese dalla pittura/ mi hanno guidato in contrade promesse”.
Come traduttore, Angelo Maria Ripellino ha fatto conoscere per primo agli italiani le poesie dei russi Boris Pasternàk, Aleksandr Blok e Evghenij Evtushenko, e dei cechi Vladimir Holan e František Halas.
Nell’agosto del 1968, quando la “Primavera di Praga” è in pericolo e i carri armati del “patto di Varsavia” irrompono in Cecoslovacchia, Angelo Maria Ripellino, inviato dell’Espresso, si trasforma in cronista appassionato che segue il precipitare degli eventi, vivendo il dramma con i suoi amici intellettuali (tra gli altri il giovane Milan Kundera) raccolti intorno ad Alexander Dubček, riuniti nella sede della rivista Literarni Listy. Ai lettori italiani fa udire “l’infausto rotolìo dei carri armati, mostruosa ferraglia” e descrive l’“insania sovietica, questo miscuglio asiatico di truculenze e di falsi”. Consigliato dai suoi amici praghesi parte per Roma e scrive l’articolo Ai miei amici che sono in carcere che ha questo finale: “Voi siete la coscienza del mondo”. Contro la complice indifferenza delle istituzioni politiche e culturali italiane, ha il coraggio di gridare che “l’ignavo non soffre i disordini di Praga/ che hanno straziato la carne del secolo”. Ormai esule, con la forza di un Halas denuncerà gli schemi ideologici che mirano ad umiliare l’uomo attraverso la mistica della sottomissione e dell’obbedienza, ricordando come solo il rigore morale individuale e l’analisi critica possono contrastare le ideologie totalitarie di chi “se ne sta appollaiato sulle uova di alcuni dogmi”.

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Ad Angelo Maria Ripellino devono molto sia la città di Praga – sua seconda patria, come quella ceca la seconda lingua – che l’Italia, da lui avviata ad una conoscenza della civiltà slava e mitteleuropea con testi e strumenti di indagine che vanno al di là dell’hortus conclusus dell’accademia. Con Praga magica ha lasciato non solo un monumento aere perennius per mezzo del quale ogni lettore può ripercorrere la storia, la letteratura, i relitti, echi e bagliori di una civiltà affascinante, da Ripellino rivisitata con gusto ardimentoso ed enciclopedico, ma anche un percorso iniziatico verso la riconquista della parola di un mondo. L’estremo tentativo di un alchimista di restituire dignità ad una materia oltraggiata.

* L‘articolo è stato scritto in collaborazione col giornalista e critico letterario Giacomo D‘Angelo


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