FacebookTwitterLinkedIn

Parla Alessandro Ripellino, figlio del grande slavista, principe della boemistica, poeta e scrittore, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. A cinquant’anni dalla pubblicazione del suo capolavoro, Praga magica

“Angelo Maria Ripellino, mio padre”

08-09-a_m_ripellino-wikipedie

“La settimana scorsa è nato mio nipote al quale mia figlia Giulia ha dato il nome di Alvar Angelo Ripellino, in ricordo del centenario della nascita di mio padre. Per noi è un evento che lega insieme tre situazioni culturali della nostra famiglia molto diverse: la mia attuale qui a Stoccolma, Praga di cui parleremo e Roma”. Inizia così la nostra conversazione con l’architetto Alessandro Ripellino, erede insieme alla sorella Milena di una delle voci più importanti della cultura italiana del XX secolo. Nato a Roma nel 1957, Alessandro vive da quarant’anni in Svezia, dove in questo periodo è diventato un architetto di fama internazionale, autore fra l’altro del padiglione svedese all’Esposizione universale di Dubai. Lo raggiungiamo per telefono a Stoccolma e sin da subito è evidente l’emozione e l’entusiasmo nel parlare del padre e della sua famiglia.

Qual è la prima immagine che le viene in mente parlando di suo padre?

Le immagini di bambino piccolo non sono tante, ma quelle più forti mi riportano ai nostri viaggi estivi in Boemia, a quando soggiornavamo nel castello di Dobříš, vicino a Praga, dove gli scrittori cechi, ma anche stranieri, erano accolti e anche un po’ controllati. Il castello, confiscato alla famiglia Colloredo Mansfeld, era una piccola Versailles, col suo giardino all’italiana, con un fiume e un lago nelle vicinanze. Di quel luogo ricordo la luce dei prati verdi, che per me erano inusuali, visto che in Italia non ce ne erano di quel colore in agosto. Sono le immagini descritte in un verso di mio padre: “Agosto: verde luce di radura e il cane Bobina che mangia zollette di zucchero”, della raccolta di Sinfonietta. Bobina era appunto la cagnetta con la quale noi bambini giocavamo. Questo è il mio primo ricordo. C’è però anche un’altra immagine che si contrappone, quasi di contrabbalzo, ed è quella della casa dei miei nonni siciliani, a Roma, dove noi andavamo abitualmente a pranzo la domenica. Mio nonno, Carmelo Ripellino, era un insegnante del Liceo Classico Giulio Cesare e anche lui si occupava di poesia, interessato come era alla letteratura classica italiana.

10-famiglia-ripellino

Dobříš è anche il luogo dove suo padre trascorse un periodo di ricovero.

Sì, nel 1964. Io allora ero molto piccolo. In Italia non c’erano ancora i medicinali appropriati per curare la tubercolosi e i medici italiani, dopo averlo operato, gli dissero che ormai non c’era più molto da fare. Fu così che un suo amico, lo scrittore ceco Jiří Fried, gli suggerì di cercare aiuto in Cecoslovacchia. Lo accolsero così nel sanatorio di Dobříš, dove rimase ricoverato per più di un anno e riuscirono a salvargli la vita. Fu lì che scrisse la raccolta “La Fortezza Alvernia”, dove c’è molto pesante l’immagine della neve, della chiusura di questa fortezza che era appunto il sanatorio. Di quel periodo in Boemia ricordo in particolare la caligine, l’odore del carbone che si univa in una strana mistura con quello del disinfettante utilizzato nell’ospedale. Sono queste sensazioni di bambino che ancora oggi fanno parte di me.

La vita di suo padre fu scandita dalla malattia. Un suo ex studente lo ricorda così: “col passo malfermo, ma sempre col sorriso sulle labbra, seppur malinconico, ma senza mai buttarsi giù”

Lui in realtà fuori da casa era sempre molto estroso, molto positivo, ma allo stesso tempo molto dolce. Coi suoi studenti non era autoritario, ma emanava un carisma naturale. In famiglia invece era evidente la sua preoccupazione e ai nostri occhi la sua immagine non era certamente rasserenante. Le ultime immagini sono legate alle grandi difficoltà che aveva per la malattia, alla paura e all’angoscia, ma ricordo anche la sua volontà di combattere. Sino alle ultime settimane continuò a scrivere le sue critiche teatrali per l’Espresso.

Ha accennato al fatto che a Dobříš suo padre era anche controllato

Gli intellettuali ospiti erano regolarmente spiati. Ogni volta che entravamo nella nostra stanza, mio padre alzava un quadro, per vedere se c’era un microfono, e la maggior parte delle volte era proprio così. Mio padre lo gettava nel cestino, tagliando i fili e dopo qualche giorno ricompariva. Tutti gli ospiti del Castello sapevano che era così, addirittura ci si scherzava, ma tutti agivano in modo da non parlare troppo, in modo da non avere problemi. Era uno degli aspetti della stupidità ottusa di quel regime, con quella sua burocrazia assurda, un po’ asburgica e molto sovietica, la commistione di due ottusità, che hanno a lungo perseguitato la mia famiglia.

Passiamo al fatidico 21 agosto del 1968. Lei aveva poco più di dieci anni.

Furono giorno drammatici. Noi in quel periodo eravamo a Praga, dove mio padre lavorava anche come corrispondente dell’Espresso, per raccontare la Primavera di Praga e il nuovo corso di Dubček. Il giorno dell’invasione ci suggerirono di andar via subito. Mia madre Ela stivò le valigie nella macchina e partimmo in tutta fretta, verso Norimberga. Mi ricordo il viaggio fra i boschi della Boemia, in strade secondarie, ma dove erano già schierate le truppe del Patto di Varsavia. L’angoscia dei controlli al confine era grande, perché sistematicamente aprivano le valige, smontavano i sedili. Quella volta però ci fecero stranamente passare subito.

Suo padre scrisse Praga magica quando lei era adolescente. Che memorie ha di quel periodo?

Ricordo che lui lavorava con stralci di idee, che maturavano molto a lungo, e questo spiega la lunga gestazione dell’opera, come d’altronde capitò con altri suoi lavori. Scriveva con pennarelli di colori diversi, in modo da seguire queste sequenze di idee. Poi, con l’aiuto di mia madre Ela, tagliava e ricomponeva il collage. Non sono sicuro di quando sia nata l’idea di scrivere Praga Magica. Il progetto di questo saggio-romanzo partì probabilmente proprio intorno al 1968, ma il proposito di parlare di questo crogiuolo di cultura yiddish, tedesca e boema risale certamente a prima, visto l’amore che mio padre provò sin da subito per Praga.

09-praga-magica-collage2

Che sensazioni aveva su come quel libro sarebbe stato accolto?

Lui non fu mai il tipo che si preoccupava se una cosa potesse avere successo oppure no. Quindi non credo fosse molto interessato né alle reazioni del pubblico né della critica. Però mi ricordo bene che fu la Einaudi a imporgli questo titolo, Praga magica, dall’aspetto un po’ più facile, più turistico, di quello, senz’altro più complesso, che mio padre avrebbe voluto.

Sfogliando la prima edizione di Praga magica si apprende che le foto sono di un giovanissimo Alessandro Ripellino

Sì, è vero. La mia passione per la fotografia è legata, sin da bambino, all’interesse per l’arte e per l’immagine che ho ricevuto dai miei genitori, e loro la assecondavano. Al tempo del servizio fotografico per Praga magica avevo circa quattordici anni, ma conoscevo già le tecniche di sviluppo e disponevo di una macchina molto buona. In vista dell’uscita del libro, andai in giro per la città insieme ai miei genitori, in autunno, primo inverno, tant’è che si nota qualche chiazza di neve. Sono fotografie che ricordano un po’ lo stile di Josef Sudek e che parlano di una Praga caliginosa, grigia, un pochino mistica e appunto magica, in linea con quella che era l’idea e la committenza di mio padre. Usai un grandangolo molto forte, un fisheye, come quello utilizzato appunto per l’immagine di copertina. A proposito di quest’ultima foto, purtroppo venne ritoccata dalla Einaudi, che ci mise due colori che non c’entrano assolutamente niente, anche questo per rendere il libro più turistico e commerciale. Mi spiace però che nelle edizioni successive quelle foto non compaiano, perché sono molto importanti per il libro.

Parliamo di sua madre Ela. Italo Calvino coniò l’espressione “Officina Ripellino”, per descrivere l’apporto che diede all’opera di suo padre  

Ela fu infatti fondamentale per il lavoro di Angelo: ispiratrice, ma anche traduttrice e persino correttrice. Gli fu di grande aiuto, grazie anche alle sue conoscenze, alla sua cultura, alla sua sensibilità per la poesia. Senza Ela sarebbe stato un altro Angelo. Erano proprio una vera officina: vivevano e lavoravano in simbiosi. Lei era una donna entusiasta, molto appassionata, che rimase dedita all’Officina Ripellino sino all’ultimo giorno della sua vita. Si conobbero nel 1946 all’Istituto Italiano di Cultura di Praga, che in quel periodo era diretto da Ettore Lo Gatto, di cui mio padre era allievo. Angelo teneva dei corsi di letteratura italiana, che mia madre seguiva. L’anno successivo fu Ela a compiere il percorso inverso, per raggiungere Angelo a Roma. Viaggiò da sola, poco più che ventenne, in un’Europa distrutta dalla guerra. Arrivò in una famiglia siciliana con tradizioni molto diverse per una donna della Mitteleuropa, ma quell’amore fortissimo per mio padre le consentì di adattarsi. Era una donna molto coraggiosa, fantastica.

“Vorrei ricordare anche il ruolo di mia madre, Ela, che per l’opera di mio padre ebbe una importanza fondamentale. Angelo ed Ela vivevano e lavoravano in simbiosi”.

10-angelo-maria-ed-ela

Che relazione ha oggi con le opere di suo padre?

E’ un rapporto molto stretto. Al di là di Praga magica, le opere di mio padre alle quali mi sento più legato sono le poesie, soprattutto le prime che egli scrisse. “Non un giorno, ma adesso” è una raccolta, che sento molto profondamente. Vi ritrovo tutta la ricchezza lessicale, la presenza dell’immagine, dell’arte, le sfumature linguistiche, quest’immaginario molto complesso, quasi ridondante, semanticamente complesso, che caratterizzavano gli scritti di mio padre.

E quali sono i luoghi di Praga che più la riportano con la memoria a suo padre e alla sua famiglia?

In generale tutti i luoghi di Praga magica, ma in particolare la Moldava e l’isola di Kampa, che mi ricordano Vladimír Holan, il poeta e scrittore che mio padre tradusse e al quale si ispirò moltissimo. Con lui aveva una relazione molto profonda. Holan era una figura molto particolare. Mi ricordo che noi accompagnavamo mio padre sulla porta della sua casa, sulla Kampa, vicino al mulino, ma l’unico ammesso ad entrare era appunto mio padre. Poi, per quanto riguarda l’altra riva del fiume, mi viene in mente Karoliny Světlé. Mia madre veniva da una famiglia benestante e sulla Karoliny Světlé avevano una bellissima casa, che venne confiscata nel 1949. Mia nonna, la babička, con una figlia emigrata in un paese capitalista come l’Italia e un figlio rifiutatosi di prendere la tessera comunista, per punizione venne mandata a vivere in un piccolo appartamento seminterrato, praticamente un sottano, nel quartiere di Smíchov. Era un’abitazione incredibile, dove si entrava attraversando il bagno e la cucina.

Alberto Arbasino nel 2014 scrisse: “Povera Praga, da Kafka ai money change”. Come si troverebbe suo padre nella Praga di oggi?

La sublimità di Praga c’è ancora, nessuno può levargliela, ma credo che mio padre avrebbe difficoltà a ritrovare l’incanto dei luoghi, l’atmosfera grigia e fumosa, quel suo essere magica di quei tempi. Oggi Praga – almeno come l’ho vista io cinque anni fa, l’ultima volta che ci sono stato – è molto più vivace cromaticamente, molto restaurata, ma mio padre credo sarebbe molto intristito per la globalizzazione commerciale, per la omologazione per la quale si trovano in tutte le parti del mondo le stesse boutique commerciali, la stessa pseudo cultura consumistica. Credo senz’altro che lui soffrirebbe molto per la banalizzazione di questa Città magica.

Tanto si è detto del rapporto che suo padre aveva con Praga. Vorrei chiederle qualcosa di quello che aveva con Palermo, con la Sicilia, dove nacque e trascorse l’infanzia.

Lui parlava pochissimo della Sicilia e non so perché. Ora che anche io sono più senior, sarei interessato a capire meglio quale fosse il sentimento che egli nutriva per la sua terra. Ancora oggi mi sorprende non averlo mai sentito parlare del mare blu della Sicilia, per esempio, che è di una bellezza sconfinata. Non ho in realtà cosa dire. Ad eccezione del pranzo domenicale coi genitori, aveva anche pochi rapporti con gli altri parenti. Eppure, la Sicilia è sempre presente nella sua opera, come emerge dalla sensibilità per i dettagli: gli odori, i profumi, e soprattutto i colori, in particolare il giallo, che ricorre nelle sue poesie. Lui non parlava mai neanche della bellezza del barocco siciliano e in particolare di quello di Palermo, che ovviamente conosceva bene e che è certamente rimasto sempre nei suoi occhi, elemento fondamentale della sua formazione.

12-alessandro-ripellino

Lei è un architetto di fama internazionale. Vorrei chiederle se suo padre ha avuto una influenza sulla sua scelta di vita professionale. 

Mio padre mi ha trasmesso in primo luogo l’audacia di scegliere la mia strada, anche diversa dalla sua. Egli è stato soprattutto una ispirazione fantastica, perché nella mia famiglia non si parlava d’altro che di letteratura, di arte, di storia e di filosofia. La nostra casa era un po’ un porto di mare, frequentato da musicisti, scrittori, pittori, come Piero Dorazio e Achille Perilli. Ricordo le discussioni intellettuali nel fumo di infinite sigarette, le cene coi letterati e con gli amici italiani, ma anche cechi e russi, questi ultimi talvolta resi un po’ troppo allegri da quanto bevevano. Era un humus culturale che si è manifestato fertile anche in altri settori, come per esempio la fisica, materia che mi ha sempre interessato. Non è probabilmente un caso che mia figlia sia diventata una fisica delle particelle che lavora al Cern, quasi come fossero delle piste che si aggrovigliano e si dipanano in una trama complessa di intrecci familiari. Devo dire però che mio padre il mio interesse per l’architettura lo ha appena conosciuto, in quanto è sorto in me proprio durante gli ultimi tempi della sua vita.

Per chiudere, vorrei un suo ricordo di suo padre, attraverso le parole di una sua poesia.

Non posso che rispondere coi suoi versi probabilmente più celebri: “Vivere è stare svegli… vivere è amare la vita”.

(di Giovanni Usai)