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A gonfie vele lo scorso anno in Rep. ceca l’esportazione di armi e di materiale di uso militare. E’ quanto emerge dai dati pubblicati dal ministero dell’Industria e del Commercio di Praga. Le vendite fuori dai confini nazionali hanno rappresentato un valore complessivo di 4,9 miliardi di corone, miglior risultato da quando la Rep. ceca è nata. L’incremento rispetto al 2007 è stato di 500 milioni. Particolarmente richieste le armi corte, in particolare pistole automatiche e revolver. Ne sono state esportate oltre 30 mila.
Un risultato positivo che fa tornare inevitabilmente alla mente le tradizioni e i vertici di eccellenza che questo tipo di produzione vanta sin dai tempi dell’Impero Austro Ungarico. Negli anni Trenta la Cecoslovacchia era uno dei maggiori produttori di armamenti del mondo e confermò questa propensione anche dopo la Seconda guerra mondiale. Alla vigilia della Rivoluzione di velluto la Cecoslovacchia era il settimo paese esportatore di armi in campo mondiale. L’Urss, i paesi del Patto di Varsavia e molti dei cosiddetti paesi in via di sviluppo erano i principali mercati di esportazione.
Allora, nel territorio di quella che oggi è la Rep. ceca, era sviluppata soprattutto la produzione di armi leggere (pistole, fucili, munizioni), automobili, tecnica aeronautica, radiolocalizzatori, mentre in Slovacchia predominava la produzione di armi pesanti (carri armati, cannoni, mezzi corazzati).
27 T-72
In questo paese sono state scritte alcune delle pagine più significative della storia delle armi. Viene in mente il fucile mitragliatore Bren, sviluppato inizialmente proprio in Cecoslovacchia e usato dai soldati inglesi fino agli anni 50. Oppure la piccola e leggendaria pistola mitragliatrice Skorpion, arma simbolo della guerra fredda, il cui nome rievoca le grigie atmosfere e le nebbie berlinesi dei libri di John le Carré. La Skorpion, usata da numerosi gruppi terroristici internazionali, è entrata tristemente anche nella storia d’Italia (fu l’arma con la quale le Brigate Rosse uccisero Aldo Moro nel 1978). Impossibile non ricordare anche il Semtex, il famigerato esplosivo di cui Vaclav Havel, appena diventato presidente, chiese l’immediato divieto delle esportazioni. Oppure la la CZ 75 considerata ancora oggi una delle pistole migliori al mondo.
Va detto però che negli ultimi venti anni molte cose sono cambiate e la Rep. ceca è riuscita solo in minima parte ad ereditare il ruolo nella produzione delle armi appartenuto alla Cecoslovacchia. La svolta del 1989, la fine della contrapposizione fra blocco orientale e blocco occidentale, la dissoluzione del Patto di Varsavia, con la inevitabile riduzione delle spese destinate al settore difesa, furono i fattori determinanti che, dopo il 17 novembre del 1989, portarono al declino. Inoltre, nella giovane democrazia, nata in modo non cruento dalla Rivoluzione di velluto, prevalse l’orientamento di ridurre fortemente la produzione di armamenti e di avviare il settore a una profonda opera di conversione. Il presidente Havel fu tra i primi sostenitori di questa nuova linea, un modo comprensibile, dopotutto, di rompere i ponti col passato.
Le prospettive dell’industria ceca degli armamenti
Dappertutto nel mondo è consueto che i dati relativi all’industria bellica siano poco accessibili. L’esigenza di riservatezza è facilmente spiegabile vista la particolare delicatezza dell’argomento. Una precisazione però appare necessaria: nonostante siano passati venti anni dalla Rivoluzione di velluto, nel campo della produzione di armi e di materiale bellico in questo paese sembra valere la stessa tendenza alla segretezza che era tipica del regime. A dirlo sono gli esperti, secondo i quali, a differenza di quanto capita in molti paesi dell’Europa occidentale, in Rep. ceca continua, per esempio, a essere difficoltoso reperire informazioni sulle singole aziende del settore armamenti, sulla solo produzione, sull’andamento del mercato e sui destinatari ultimi dell’export. Un embargo informativo che rende chiaramente più complicata la valutazione del comparto in questione rispetto ad altri settori dell’industria nazionale.
Tra l’altro, nelle tabelle ufficiali riguardanti questo tipo di export non c’è alcuna distinzione fra materiale di nuova produzione e materiale ormai antiquato, di cui l’esercito nazionale decide di disfarsi per rinnovare gli arsenali. La differenza non è di poco conto, in quanto va a incidere direttamente sulle valutazioni riguardanti la vitalità di questo comparto dell’industria nazionale. Quando negli ultimi anni la Rep. ceca ha inviato materiale bellico alle nuove amministrazioni di Iraq e Afganistan, è lecito pensare che si trattasse di prodotti dismessi dalle forze armate ceche. Lo stesso dovrebbe essere capitato a proposito dei carri armati, artiglieria mobile e cannoni che la Rep. ceca avrebbe fornito negli ultimi anni alla Georgia. In assenza di precisazioni relative al 2008, si sa infatti che nel 2007, assieme all’India e alla Slovacchia, il governo di Tbilisi sarebbe stato uno dei principali destinatari di materiale militare ceco, tanto da destare le proteste di Mosca in occasione della crisi dell’Ossezia del sud.
Gli ultimi dati sull’export militare, resi pubblici con particolare parsimonia dal ministero dell’Industria e del Commercio di Praga, necessitano quindi di una serie di distinguo e precisazioni, per evitare di amplificarne la portata al di là dell’effettivo valore. Rimane comunque il fatto che questo settore industriale, in considerazione proprio delle salde tradizioni che lo caratterizzano e dei segnali di ripresa che sta manifestando, potrebbe essere destinato a riprendere un ruolo importante nella economia della Rep. ceca, probabilmente anche in una prospettiva di sistema comune di difesa della Unione europea.