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L´avanzata dall´Italia di un fronte antirisorgimentale ed antiunitario privo di adeguati modelli interpretativi fa tappa in Repubblica Ceca. Per la precisione in quella Brno dominata dall´alto da uno dei simboli più dolorosi del patriottismo italiano: la fortezza dello Spielberg. L´allarme era stato lanciato da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera del 7 febbraio 2010. Nell´articolo Il Risorgimento sotto processo l´editorialista puntava il dito contro quelle “decine e decine di pubblicazioni, articoli, libri e libercoli, che ormai da anni stanno cambiando l´immagine di quel nodo di eventi [il Risorgimento]”.
In questo sottobosco editoriale dominato dal complottismo maniacale, dal qualunquismo giustizialista e da un revisionismo di maniera, stupisce scoprire il nome della filologa e francesista Fausta Garavini. In nome dell´imperatore (Cierre, Verona, 2008) è il romanzo storico con cui la studiosa di Michel de Montaigne si confronta con un ampio spaccato dell´Italia risorgimentale. E lo fa precisando che “tutto quanto è scritto poggia su un´accurata documentazione”. La narrazione si dipana attraverso gli occhi del magistrato trentino Antonio Salvotti, il giudice che processò i patrioti italiani. Figura controversa quella di Salvotti in cui all´intellettuale sensibile, all´acuto investigatore, al funzionario governativo autonomo nei giudizi e fermamente convinto dei valori della Restaurazione si congiunge una profonda compartecipazione umana alle sofferenze dei detenuti politici. Tuttavia il grande limite del romanzo della Garavini non sta nella doverosa rivalutazione del giudice Salvotti, bensì nella volontà di demistificare su di una base documentale inadeguata e su troppi “si sa” alcune figure cardine del Risorgimento ritenute responsabili, tra le altre cose, di aver diffamato l´Austria mentendo sui presunti supplizi patiti nel carcere moravo dello Spielberg. Nel tentativo di smentire Le mie prigioni di Silvio Pellico, l´autrice offre un´immagine della reclusione allo Spielberg talmente edulcorata – con ambienti spaziosi e luminosi, comode brande, vitto speciale per i detenuti politici, assistenza sanitaria, libera consultazione di libri e accesso ad una sala riunioni riscaldata – che il periodico Radici Cristiane in una entusiastica recensione (RC, n. 37, agosto/settembre 2008) si spinge ad affermare che “la detenzione in Moravia si potrebbe assimilare ad una vacanza forzata” (Isabella Bossi Fedrigotti sul Corriere del 22 aprile 2008 si era limitata a parlare dei patrioti come di “rivoluzionari da salotto”). Affermazioni di dubbio gusto in quanto una semplice visita alla fortezza dello Spielberg, magari per le vacanze estive, avrebbe permesso di verificare in loco, in un ambiente ancora umido e tetro, tra segrete feritoie pancacci cunicoli e celle di tortura, come i luoghi descritti dalla Garavini appartengano più ad una dimensione romanzesca che reale.
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Comunque a smentire in via definitiva quanto di ingeneroso e approssimativo traspare dai giudizi di Fausta Garavini interviene la recente pubblicazione Spielberg – Documentazioni sui detenuti politici italiani (Minelliana, Rovigo, 2010) di Luigi Contegiacomo, direttore dell´Archivio di Stato di Rovigo. L´opera – comprensiva delle oltre 40.000 carte un tempo segretate e oggi custodite a Brno presso l´Archivio della Regione Moravia – prende in considerazione i documenti ufficiali provenienti da tre fonti distinte: il Governatorato di Moravia e Slesia, l´amministrazione dello Spielberg e la direzione generale della polizia di Brno. “Una documentazione molto più completa e oggettiva di quella consultata da Fausta Garavini che ha utilizzato soprattutto l´epistolario di Salvotti, dal quale emerge ovviamente una visione dei fatti parziale e decisamente filoaustriaca”, precisa Contegiacomo ad Antonio Carioti sul Corriere del 7 marzo scorso. Dalla ricerca emerge che i documenti della stessa amministrazione austriaca confermano quanto descritto dal Pellico. Lo Spielberg era un carcere di massima sicurezza dove i detenuti erano reclusi in ambienti bui e malsani, legati ai muri con catene, in una condizione di solitudine pervasiva aggravata dalla soppressione di tutti i diritti individuali – compreso ricevere cure mediche o scrivere ai familiari – salvo specifiche autorizzazioni dell´imperatore. Inoltre al vitto inadeguato (i patrioti Oroboni e Villa morirono di stenti) si accompagnava l´umiliazione, particolarmente gravosa per dei nobili, di dover svolgere lavori da donna quali tessere, cucire e fare l´uncinetto. Ad integrazione della preziosa pubblicazione di Contegiacomo aggiungiamo che, secondo quanto testimoniato – e stigmatizzato – da Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, XXI), nei regimi monarchici le pene per i nobili erano generalmente più lievi, meno infamanti e spesso convertibili in sanzioni pecuniarie. Pertanto i patrioti, molti dei quali appartenevano appunto alla nobiltà, furono i primi a pagare in prima persona le conseguenze della propugnata uguaglianza davanti alla legge nel nome dell´unità e dell´indipendenza nazionale, mettendo in moto quel processo di civilizzazione che solo nel contesto nazionale unitario permise l´estensione dei diritti politici e civili a tutta la popolazione italiana.
Come monito contro la deriva autolesionista delle polemiche intorno alle celebrazioni del centocinquantenario dell´Unità d´Italia, polemiche accomunate da un provincialismo di fondo dietro di cui aleggia il ben più gravoso spettro di un concetto di identità di patria mai affrontato in modo adeguato, ricordiamo le parole del giurista Carlo Cardia sull´Avvenire del 27 agosto 2009: “Uno degli aspetti meno convincenti delle discussioni sulle celebrazioni unitarie è vedere rigettati sull´unità realizzata nell´Ottocento i problemi successivi e quelli di oggi. Come se le vicende, anche dolorose, di Paesi di nuova indipendenza possano addebitarsi all´indipendenza stessa, anziché agli sviluppi storici e ai problemi della modernità. Anche la denuncia della povertà e inconsistenza dei protagonisti del Risorgimento, oltre che ingenerosa, ignora che alternative storiche realistiche sono del tutto improponibili”.

Di Alessio Di Giulio