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Il movimento Ano, guidato dal vicepremier miliardario, esordisce in politica estera con una linea di convinto Atlantismo. L’effetto boomerang della recente tournée americana

Dopo più di un anno di governo e di atteggiamento impalpabile in politica estera, quasi sempre in silenzio anche davanti ai fatti di Ucraina, Ano – il movimento guidato dal miliardario e vicepremier Andrej Babiš – ultimamente ha cominciato a guardare con attenzione alle relazioni internazionali della Repubblica Ceca.

Lo ha fatto manifestando una linea di convinto Atlantismo, di critica nei confronti del presidente Miloš Zeman e delle sue simpatie per il Cremlino, senza mancare di agitare come vessillo la figura di Václav Havel, il quale nel mondo occidentale – in modo particolare negli Stati Uniti – rimane una icona intramontabile di democrazia e di tutela dei diritti umani.

I motivi che hanno spinto Ano a darsi un profilo in politica estera sono molteplici. Il primo e più importante è persino evidente: una forza politica e di governo come questa – ormai da mesi in testa ai sondaggi elettorali e con ambizione di assumere quanto prima la guida del paese – non può permettersi di rimanere indifferente a ciò che avviene fuori dai confini nazionali.

Da un lato è appurato che la politica estera non è uno dei temi di maggior interesse per gli elettori cechi. È anche vero però che i cittadini, al momento di recarsi alle urne, non sono del tutto indifferenti a quanto avviene nel mondo, soprattutto con la crisi russo-ucraina. Secondo i sondaggi, i più sensibili sono soprattutto gli elettori del centrodestra, che al politico/magnate chiaramente fanno gola.

Altra questione è quella relativa alla scelta così nettamente filo Atlantica di Babiš, un orientamento che pochi da lui si aspettavano, visto il suo passato di uomo d’apparato del regime comunista e di probabile ex collaboratore della polizia segreta StB, prima del 1989. Ma pur tralasciando i fantasmi del lontano passato, Babiš anche di recente sino alla fine dello scorso anno, si è sempre distinto per una certa indifferenza verso la politica estera. In particolare, proprio sui fatti di Ucraina, il suo primo commento di una certa consistenza risale allo scorso settembre, quando – riferendosi alle sanzioni occidentali contro Mosca – sbotta: “sono una misura insensata, che avranno come effetto quello di togliere posti di lavoro alla Repubblica Ceca”. E ancora: “Prima di tutto ci sarebbe da chiedersi cosa sia successo realmente in Ucraina e quale ruolo stiano avendo le disinformazioni diffuse dai media”.

Secondo una serie di osservatori, a spingere Ano verso la sorprendente svolta Atlantica avrebbe contribuito il rapporto privilegiato instaurato da qualche tempo fra Babiš e l’ambasciatore americano Andrew Schapiro. L’idillio è iniziato a fine gennaio, con la visita della feluca americana al Čapí hnízdo, il Nido della cicogna, un resort di lusso immerso nella natura, di cui Babiš è proprietario, 50 km a sud di Praga. Il giorno dopo, la notizia di Schapiro ospite del tycoon di origine slovacca, appare su Lidové noviny, quotidiano che fa parte dell’impero editoriale di Babiš. L’articolo è fatalmente corredato di una analisi sulla necessità per Ano di rivolgere più attenzione alla politica estera.

Il dado è tratto. Da quel momento il leader di Ano dimostra di non voler più considerare questo tema come un terreno di esclusiva competenza dei partner di governo socialdemocratici e fa capire di voler avere più voce in capitolo nella gestione del palazzo Černín, la sede del ministero degli Esteri, e nella scelta dei nuovi ambasciatori.

Il compito di occuparsi in prima persona di questo argomento è affidato a un personaggio con tutte le carte in regola, Pavel Telička, europarlamentare di Ano, con un passato di diplomatico, di eurocommissario e persino di lobbista a Bruxelles. È proprio Telička a sottolineare sui giornali che la Repubblica Ceca d’ora in poi deve avere una politica estera proattiva, meno statica, prendere più parte alla attività delle organizzazioni internazionali. Chiede soprattutto che il paese abbia negli stati chiave – capitali come Washington, Londra e Berlino – persone autenticamente di spicco, “diplomatici capaci di essere presi come veri e propri partner dai vertici dei paesi ospitanti, cosa che in passato non sempre è accaduta”.

I tempi sono maturi per la tournee statunitense a metà aprile di Babiš, una trasferta durata sei giorni, caratterizzata da un fitto e prestigioso calendario di incontri, per la cui definizione Schapiro avrebbe dato un forte contributo. Negli Usa il vicepremier ceco si è visto con Jason Furman, capo dei consulenti economici di Barack Obama, con il miliardario ed ex sindaco di New York Michael Bloomberg, con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, con il Nobel Joseph Stiglitz e con l’ex segretario di stato Madeleine Albright, senza considerare i colloqui con i rappresentanti di aziende americane presenti in Repubblica Ceca e potenziali investitori, in modo particolare della Sillicon Valley.

Un viaggio organizzato da un lato con l’intento di accreditarsi come un vero democratico e amico fedele degli Stati Uniti in Europa Cento Est, dall’altro – è persino superfluo sottolinearlo – per far sfoggio davanti alla opinione pubblica ceca del credito di cui gode Oltreoceano.

La trasferta americana è stata però anche la causa di un inconveniente che non ha mancato di avere ripercussioni non positive per l’immagine del magnate e politico ceco. Babiš infatti, appena sbarcato sul suolo statunitense, si è trovato fra le mani un numero di Foreign Policy, l’autorevole rivista americana dedicata alle relazioni internazionali, che lo descriveva come una via di mezzo fra un oligarca russo e l’ex premier italiano Silvio Berlusconi, dandogli persino la qualifica di “Babisconi”.

Un articolo non certo compiacente, dove si metteva in evidenza come “l’ascesa politica a Praga di un potente uomo d’affari, rischi di minare le istituzioni democratiche nel cuore dell’Europa”, senza mancare di ricordare tutti gli aspetti problematici del personaggio, a partire dal suo passato nel regime pre ‘89 e sottolineando le zone d’ombra della sua ascesa imprenditoriale così come la posizione di conflitto di interessi in cui si trova dopo aver assunto responsabilità di governo.

Pagine che hanno fatto infuriare il vicepremier ceco – “Chi ha scritto queste cose, sappia che io negli Stati Uniti sono in grado di trovare degli avvocati capaci di costringerli a scusarsi” – il quale ha messo in dubbio l’onestà del Foreign Policy, accusando la testata di scrivere su commissione, “certamente a seguito di un’imbeccata ricevuta dai miei avversari politici in Repubblica Ceca”.

Parole che, da quanto se ne sa, hanno lasciato del tutto imperturbabile la redazione del Foreign Policy e che, con ogni probabilità, non avranno alcun seguito.

di Giovanni Usai