FacebookTwitterLinkedIn

Incontro con Josef Kašpar, decano dei corrispondenti stranieri a Roma

“Era la primavera del 70, una deliziosa primavera romana. Mi arrivò una lettera asciutta, scritta in una carta grigiastra, poche righe stringate. Mi comunicava che “…il popolo della Cecoslovacchia ha già speso abbastanza per i suoi studi all’estero” e mi invitava a un rientro immediato a Praga. Erano i primi effetti della “normalizzazione” imposta dai russi. Mi ero informato, avevo dei sospetti… Capivo che dietro quella lettera c’era ben altro, ero certo che mi avrebbero punito, una volta rientrato in patria, per le mie “deviazioni borghesi”, per i miei soggiorni italiani giudicati sospetti: così, decisi, pur con qualche timore, di restarmene a Roma”.

Sembra divertito, Josef Kašpar, a raccontare quest’aneddoto di 50 anni fa. Un flash in apparenza marginale, ma spiega parte della sua esperienza di giornalista “storico”, oggi si direbbe decano, dei corrispondenti stranieri in Italia. Mezzo secolo sul Tevere, nel ‘76 arrivò anche il passaporto di Roma. Dunque Kašpar è sicuramente un ottimo giornalista, scrittore e traduttore, ma è anche qualcos’altro. Lo si potrebbe definire, (non sembri definizione bizzarra) un “mediatore culturale” fra Roma e Praga: nel senso che attraverso giornali, televisione, saggi, interviste spiega ai cechi la mentalità italiana, e agli italiani la mentalità ceca.

“Prendiamo il caso recente degli sbarchi di clandestini sulle coste siciliane e non solo – chiarisce Kašpar. – Sulle testate praghesi sono apparse notizie apocalittiche: si consigliava addirittura ai nostri turisti di non frequentare città e spiagge della penisola. Ho cercato di spiegare su “Česká Televize”, la tivù nazionale, la verità dei fatti: venite tranquilli, non c’è nessun pericolo. Dico questo perché, ancora oggi, gli equivoci sono facili e c’è sempre qualcuno che soffia sul fuoco”.

- Insomma, i cechi non capiscono la realtà italiana?

“Non è esattamente così. Direi che la interpretano a modo loro. Poi, certo, ci sono i luoghi comuni sugli italiani fannulloni, sulla burocrazia kafkiana che regna a Roma, eccetera. Ma penso che oggi, soprattutto fra le giovani generazioni, prevalga l’ammirazione per l’Italian style. Che non è solo l’eleganza di possedere una fuoriserie Ferrari o di un vestito di Valentino. No, è proprio l’ammirazione per il modo italiano di prendere la vita, di saper vivere. Senza contare il buon nome dell’industria italiana”.

- Ammirazione per l’Italia. Eppure, i cechi sono considerati molto vicini alla cosiddetta “linea dura”, quella seguita dai tedeschi verso i paesi mediterranei…

“Innanzitutto, siamo un paese dell’Unione, ma non siamo (o non siamo ancora) un paese dell’Eurozona. Quindi le posizioni tedesche ci riguardano da un punto di vista politico, certamente. Un po’ meno, io credo, da quello monetario. L’adesione all’Unione da parte di Praga è stata molto meno sentimentale di quel che si può credere ad ovest. Entrare nell’Europa unita è stata vista come una possibilità, una chance per migliorare il livello strutturale del paese. Poi, gradualmente, anche i cechi hanno capito che si trattava di un’occasione limitata: bisognava fare i conti con gli eurocrati di Bruxelles, i regolamenti, le quote latte, le direttive e via elencando. È subentrata una sorta di “delusione democratica”… si è intuito che si trattava di un “condominio” comunque guidato dai grandi del Continente…”.

- E quindi?

“E quindi, tanto vale credere nell’Unione, ma con prudenza, senza troppi entusiasmi…”.

- Però sull’integrazione dei profughi africani o mediorientali nei nostri paesi, anche la sinistra ceca appare molto restrittiva. Su posizioni quasi “xenofobe”. Rinascono vecchi fantasmi?

“I media, non solo quelli di Praga, hanno creato una psicosi sui profughi. In particolare su quelli di origine araba. Un dramma annunciato che in realtà non esiste: si confondono i boat people con i terroristi islamici, disperati in cerca di lavoro con potenziali assassini. La paura dell’altro da noi si unisce anche a un’insicurezza storica”.

- Torniamo all’Europa dei popoli contro quella dei burocrati?

“Evitiamo le banalità, ma c’è un briciolo di vero anche negli slogan. Personalmente, mi considero un “socialdemocratico europeo”, e continuo a non credere che tutto il popolo tedesco condivida le posizioni di Angela Merkel o di Wolfgang Schäuble. I tedeschi hanno il senso del dominio, non quello dell’egemonia culturale. È una distinzione importante ma sottile che, invece, gli americani hanno capito benissimo”.

- Cioè?

“Intendo dire che tutti apprezzano le automobili tedesche, la solidità della loro democrazia, le loro capacità organizzative, ma i tedeschi non potranno mai irradiare quell’attrazione culturale che gli americani hanno esercitato con la loro musica, i film di Hollywood, vestire casual e tante altre cose di cui è stata impregnata la nostra vita, almeno dal 1945. C’è un altro fenomeno che mi dà fastidio: il ritorno dei luoghi comuni e pregiudizi. Un conto è criticare la Merkel, altra cosa è prendersela contro il popolo tedesco. E lo stesso vale per i greci, per gli italiani e per tutti gli altri. Come se qualcuno avesse dimenticato gli errori e gli orrori del passato”.

- Mezzo secolo in Italia. La domanda sorge spontanea: ce la faremo?

“L’Italia ha sempre dato il meglio di sé nelle situazioni difficili. È un paese ferito, ma penso che supererà anche questa crisi economica e sociale devastante. C’è un prezzo da pagare, è chiaro: nel 2014, mezzo milione di italiani ha lasciato la Penisola. E non si tratta di emigrazione bracciantile: è personale qualificato, laureati, tecnici specializzati che vanno via in cerca di lavoro”.

- La Penisola come periferia dell’Impero tedesco?

(ride..) “Io vedo un pericolo diverso. Certo, esiste oggi un’egemonia tedesca, che non pagano solo gli italiani. Ma il pericolo maggiore lo vedo piuttosto nell’allontanarsi rapido delle due Italie, nella forbice sempre più larga fra Nord e Sud. C’è un abisso fra un abitante di Trento e, per dire, uno di Caserta. Un abisso nei servizi, nell’efficienza dello Stato, nel livello culturale. Un dato che si percepisce anche semplicemente restando a Roma per una settimana”.

- Non abbiamo parlato di Russia… o forse bisognerebbe scrivere ancora Urss?

“Di Putin e del suo modo di governare non ho alcuna simpatia, ma penso sia stato inutile e controproducente umiliare la Russia nel corso degli ultimi decenni come hanno fatto alcuni ambienti americani. E poi non dimentichiamo il passato: dopo il crollo comunista dell’89, le truppe sovietiche hanno abbandonato senza sparare un colpo la Ddr, la Cecoslovacchia, la Polonia, l’Ungheria. E guarda caso proprio là dove non c’erano, ossia in Romania e in Jugoslavia, gli avvenimenti furono molto drammatici. Penso che questa pagina della storia non vada dimenticata”.

di Ernesto Massimetti