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La leadership politica ceca ha fatto dei passi indietro nella promozione dei diritti umani. Il contraltare è nella società civile
“Che dire, i tempi sono cambiati. Dopo la Rivoluzione di Velluto c’era un’atmosfera diversa, una coscienza diversa. Tanta gente sta voltando le spalle a quei sentimenti”

Passeggiando per la zona bassa del quartiere di Žižkov, non è più possibile incontrare il grande volto di Franz Kafka a far capolino sotto la collina di Vítkov. Per anni un grande murales faceva emergere, dal naso in su, il grande scrittore praghese, sulla facciata di un palazzo. Oggi il suo sguardo incavato è coperto da manifesti pubblicitari, appartamenti in vendita. Rimane solo la scritta sotto il tetto, “pomoc” (“aiuto”). Ciò che invece è possibile vedere oggi, e non ieri, sono i loghi del “Blocco anti-islam”, che fanno presa nel quartiere, un tempo roccaforte multiculturale. Nascondere lo scrittore dello straniero in lotta per i suoi diritti (il Castello) e mostrare il logo della xenofobia che avanza (il populismo anti-rifugiati e musulmani). Sono tempi che cambiano.

“La Repubblica Ceca non è per tutti”, è stato il titolo della conferenza per la 200esima edizione del Forum di Žofín lo scorso 26 maggio. Il tema del giorno: la crisi migratoria. Unico relatore: il Presidente Miloš Zeman. L’approccio: ben poco spazio all’immaginazione.

Gli slogan del Capo dello Stato ben si mescolano ad un clima politico alquanto ostile tanto all’ondata migratoria quanto alle politiche comunitarie che, pur blandamente, tentano di ricordare agli stati membri quei diritti universali che l’Europa vanta a fondamento della propria vita comune.

Purtroppo l’oblio sui diritti umani della leadership ceca non è solo contingente alla crisi migratoria degli ultimi anni: la rimozione politica di questi valori ha trovato una sua collocazione precisa anche in politica estera. La missione del governo in Cina ed i “gentlemen’s agreements” siglati da Zeman e la sua controparte cinese lo scorso marzo sono stati accompagnati da un atteggiamento di voluta rottura con il passato, quando “i diritti umani”, a quanto si dice, influivano negativamente sul business ceco.

Pensare che il tema dei diritti era il cuore della Rivoluzione dell’89, la roccaforte della politica di Václav Havel e la prima immagine della politica ceca all’estero per quasi due decenni.

Tuttavia, l’oblio della politica non vuol dire necessariamente l’oblio di una nazione. La Repubblica Ceca ha anche degli ambasciatori che fanno dei diritti umani il loro distintivo. Člověk v tísni è uno di questi. La Ong – conosciuta in tutto il mondo per le sue azioni d’aiuto in crisi umanitarie e che dalla sua nascita, nel 1992, ha effettuato operazioni in 61 paesi – rappresenta il fiore all’occhiello di quella parte di società civile che non ha dimenticato i valori della Rivoluzione.

“La scintilla arrivò in Nagorno-Karabakh. Il giornalista Jaromír Štětina raccontava la caduta dell’impero sovietico e nella zona contestata tra armeni e azeri infuriava la guerra civile. Guardare e raccontare non bastava più. Pochi anni prima era per le strade di Praga con l’amico Šimon Pánek, all’epoca tra i più attivi del movimento studentesco, e manifestavano per la libertà, per un mondo nuovo. Bisognava agire anche per gli altri, per chi non aveva aiuto. Erano anni di grande empatia”.

Adéla Pospíchalová, del dipartimento Diritti Umani dell’associazione, ci racconta com’è iniziata l’avventura. La incontriamo nel quartier generale di via Šafaříkova, a Praga, in un palazzo a sei piani che è stato lentamente colonizzato dall’organizzazione. Oggi Člověk v tísni – o People in Need, traduzione inglese con cui è conosciuta nel mondo – conta più di mille dipendenti, tra gli uffici locali e le missioni. Nata come Fondazione di Lidové Noviny, divenuta nel ‘94 Fondazione Člověk v tísni per Česká Televize, dal ‘99 porta il suo nome attuale. La prima idea era di lanciare, tramite i media, delle campagne di raccolta fondi, per accumulare aiuti da portare nelle zone di crisi.

“L’SOS Sarajevo, lanciato poco dopo la missione nel Caucaso, fu la nostra prima campagna di grande successo. La gente di qui conosceva la Jugoslavia, ci andava in vacanza, così come si è tornati a fare di recente, aveva connessioni, amici, parenti. Le immagini della città sotto assedio colpirono tanta gente, ricevemmo una risposta straordinaria”. Tra il 1992 e 1993 l’SOS riuscì a raccogliere un’enorme somma di denaro, l’equivalente di 1,2 milioni di euro. Convogli umanitari poterono così raggiungere la capitale bosniaca, stretta nella guerra fratricida, portando medicinali e rifornimenti.

Da quel momento l’organizzazione è cresciuta, dal Caucaso all’Asia all’Africa all’America Latina. Il primo lavoro è quello di portare aiuto in momenti di crisi. Ad esempio dopo le devastazioni dello tsunami nell’Oceano indiano del 2004, o del terremoto di Haiti nel 2010 – anche a casa, prestando il loro aiuto durante l’esondazione della Moldava nel 2002.

“Durante una missione entriamo in contatto con un paese, una comunità. Questo ci porta spesso a considerare quali progetti potrebbero migliorare le condizioni di vita della gente, non contingenti ma di sviluppo. E poi ci sono i progetti di difesa dei Diritti Umani con cui sosteniamo i diritti civili e politici di chi ne è privato, così come l’integrazione sociale” – ci spiega Adéla.

L’organizzazione lavora soprattutto all’estero, tuttavia sono presenti progetti di integrazione in patria, in primo luogo nell’educazione. E nell’organizzazione di un film festival sui diritti umani, Jeden Svět / One World, che raccoglie migliaia di spettatori ogni anno.

Come siete accolti nei paesi in cui vi recate?

Dipende dai progetti. Negli interventi umanitari i governi locali, così come la popolazione, ci trattano con grande rispetto e simpatia: siamo lì per un aiuto immediato, non c’è tempo da perdere, ed il nostro lavoro è di solito enormemente apprezzato. Diverso è per i progetti di supporto alla società civile e promozione dei diritti umani…

Un esempio?

Ce ne sarebbero molti… Siamo molto criticati in Azerbaijan, dove forniamo assistenza legale e medica ai giornalisti in galera per aver criticato il governo. La situazione continua a degenerare e sono i familiari a dover portare le medicine ai carcerati che ne hanno bisogno, una follia. Certo è prevedibile che sui progetti di promozione dei diritti umani ci si debba scontrare con i governi locali; è una questione politica. Al contrario gli interventi umanitari devono essere apolitici. In Ucraina orientale, da quando è scoppiata la crisi, forniamo aiuti tanto alla popolazione ucraina quanto a quella di lingua russa.

La “politica” dei diritti umani si presta a strumentalizzazioni…

Lo mettiamo in conto. Ci hanno definito “spie americane”, “agenti al soldo di qualcuno”, “dipendenti del governo”, e così via. La nostra risposta è nella totale trasparenza. Le finanze di Člověk v tísni sono pubbliche, on-line. Siamo finanziati da molte istituzioni da molti paesi (ma non accettiamo aiuti da partiti politici, sarebbe sconveniente), da agenzie Onu e della Ue, ma siamo noi che decidiamo quali progetti portare avanti, non i nostri donors. D’altra parte il finanziamento funziona così: noi proponiamo un progetto e loro decidono se darci soldi o meno.

Siete riconosciuti per il vostro lavoro in tutto il mondo, ma qual è il supporto che avete in patria?

Che dire, i tempi sono cambiati. Dopo la Rivoluzione di Velluto c’era un’atmosfera diversa, una coscienza diversa. Gli anni grigi del comunismo erano una memoria recente, c’era voglia di libertà e allo stesso tempo un forte sentimento di empatia verso chi, queste libertà, ancora non poteva permettersele. Noi non ci lamentiamo, noi siamo cresciuti tantissimo negli ultimi dieci anni, però… Ci rendiamo conto che tanta gente sta voltando le spalle a quei sentimenti.

Questo cambio è colpa della politica attuale?

Certamente, l’assenza di Havel si nota, si nota molto. Noi stessi dobbiamo molto alle sue idee, alla sua forza nel promuovere i valori di libertà e diritti. La classe politica attuale invece è tutt’altra cosa. Ci sono azioni che ci hanno lasciato davvero perplessi, come il tentativo di tirare in gioco un conflitto tra opportunità di business e diritti umani che non deve esistere, un aut-aut molto pericoloso. Oppure la difesa di personaggi totalmente contrari ai nostri valori, penso ad esempio alla visita del presidente Zeman alla tomba dell’ex presidente del regime azero Heydar Aliyev, leader autoritario e padre del presidente attuale. Un dato significativo: abbiamo iniziato a lavorare alla sensibilizzazione ed alla promozione dei diritti umani presso il nostro Ministero degli Esteri. Una cosa che dieci anni fa era impensabile, perché dieci anni fa la promozione dei diritti umani la faceva direttamente la nostra diplomazia…

Quindi dopo aver lavorato in mezzo mondo sui diritti umani, forse è tempo di lavorare un po’ di più a casa?

Beh – le strappiamo una breve risata, magari un pizzico amara – sì, penso ce ne sia bisogno.

di Giuseppe Picheca