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Il Centro Pompidou di Parigi celebra con una nuova mostra l’iconico maestro ceco della fotografia

Un pugno piantato contro Piazza San Venceslao deserta. Un orologio da polso a indicare una città che si ferma, immobile, per due minuti di resistenza. Joseph Koudelka è là, giovane, solo, a scattare una fotografia diventata un simbolo di quei drammatici giorni d’estate. È l’agosto 1968 quando i carri armati sovietici entrano a Praga, e quel giorno è stato organizzato uno sciopero generale, ma insolito, istantaneo quasi, l’unico modo per evitare un effetto boomerang contro la popolazione stessa. Simbolicamente, quella piazza, quella fotografia, sono l’eco di un silenzio assordante. Prima della catastrofe.

Questa immagine – tratto della serie realizzata dal fotografo ceco nei giorni che chiudono tragicamente la respirazione della Primavera di Praga – sarà l’apertura di una delle sue raccolte più note: “Exiles”.

Un orologio a suggerire un immaginario conto alla rovescia cominciato allora e che lo porterà, due anni più tardi, durante un viaggio all’estero, a rinunciare alla patria per cominciare un’erranza da esiliato, da apolide.

Ed è ancora questo scatto decisivo ad aprire la nuova esposizione che il Centro Pompidou di Parigi dedica dal 22 febbraio al 22 maggio al più internazionalmente famoso dei fotografi cechi, naturalizzato francese nell’87. “Fabbrica degli Esili” ripercorre un vagare umano e fotografico lungo due decenni, un cammino che riprende gli scatti di “Exiles” e li completa, aprendo nuove piste, svelando altri momenti fugaci: un coccodrillo e un riflesso di finestra nell’acqua, una donna in nero su un muro bianco in Portogallo, un uomo avvolto da una tempesta di neve in Albania. Scatti di un fotografo dalle “suole di vento”, sempre in cammino, armato di occhi attenti, pellicola e obbiettivo. Sulle strade d’Europa, a sfinire luoghi e pellicole, e passare oltre.

Questa esposizione arriva più di trent’anni dopo la prima mostra sugli “esili” di Koudelka, organizzata a Parigi nel 1984. Immagini che saranno poi raccolte in un volume – ormai una referenza fotografica – nel 1988.

La carriera del fotografo di Boskovice era cominciata con scatti storici ma anonimi: le fotografie che documentano l’invasione di Praga, uscite clandestinamente dalla Cecoslovacchia occupata, riescono ad arrivare all’agenzia Magnum Photos e sono pubblicate sul The Sunday Times. Tutte le fotografie sono firmate semplicemente P.P., o Prague Photographer, fotografo di Praga, nel timore di rappresaglie del regime contro di lui o la sua famiglia. Sarà grazie all’interessamento della Magnum presso le autorità britanniche che potrà ottenere il visto di lavoro di tre mesi con cui vola nel 1970 in Inghilterra, dove fa richiesta di asilo politico. L’anno successivo entra a fare parte della squadra di fotografi della Magnum Photos e vi rimane per più di dieci anni. Negli anni Settanta e Ottanta Koudelka prosegue il suo lavoro grazie al sostegno di numerosi riconoscimenti e premi, continuando ad esporre e pubblicare importanti progetti come “Gypsies”, nel 1975, il suo primo libro sulle comunità gitane, e più tardi “Exiles”. Koudelka può ritornare nella sua Cecoslovacchia solo dopo vent’anni di esilio, nel 1990, passata la Rivoluzione di Velluto. Allora, le sue foto dell’agosto ‘68, sono infine pubblicate anche in patria. Passano altri due decenni di viaggi e lavoro fotografico in Europa quando, l’anno scorso, Josef Koudelka, ormai cittadino francese da quasi trent’anni, decide di donare al Centro Pompidou tutte le settantacinque fotografie che compongono la raccolta “Exiles”. Ed è su questa base che il commissario di esposizione Clément Chéroux ha immaginato e plasmato un nuovo percorso fotografico che riprende questi scatti, ne aggiunge di inediti, e li dispone in combinazioni tematiche inconsuete, richiami di senso inusuali: così una strada notturna sotto la neve svizzera risponde allo strascico marino di una nave. Un gallo irlandese sospeso ad un filo, fa eco a dei gabbiani che planano sul mare. La volontà che sottende il percorso espositivo è mostrare come “Exiles” è stato fabbricato, tra gli anni ‘70 e ‘80. Il fulcro di quest’opera fotografica è la vocazione autobiografica di questo viaggio, spiega Chéroux: “Con la serie sull’invasione sovietica di Praga Koudelka ha immortalato un evento storico, con le foto dei gitani ha lavorato su una comunità di uomini, con “Exiles” Koudelka parla di lui”. E aggiunge “Questi scatti mostrano chiaramente l’impegno fisico del fotografo nelle immagini”. E a testimonianza della presenza centrale di Koudelka uomo, viaggiatore instancabile, ci sono gli autoscatti inediti che lo ritraggono dormire per terra un po’ dappertutto, dalla Grecia, agli uffici dell’agenzia Magnum di Parigi o Londra dove era solito fare tappa per sviluppare le fotografie prese durante le sue lunghe traversate. Scatti, suggerisce Chéroux dove “non c’è traccia né di narcisismo né di introspezione. Koudelka non vuole mettersi in mostra, costruirsi una immagine, ma piuttosto attestare la sua presenza in un certo posto a un certo momento”. Essere passato per fotografare, autoritratti come tracce di un viaggio interminabile, che integrano la presenza fisica del fotografo al suo errare di paese in paese. Il suo stesso vagare, la sua biografia, ancora e prima di tutto come presenza fotografica, immagine, non parola, l’unica forma espressiva che lo anima totalmente, che lo spinge sempre più avanti, sempre altrove. “Non mi interessa parlare, se ho qualcosa da dire lo si può trovare forse nei miei scatti, non mi interessa spiegare le cose”, sono parole sue. E ancora, più forte, più profondo: “Vorrei vedere tutto, vorrei essere uno sguardo”. Vagabondo. Profondo. Preciso.

di Edoardo Malvenuti