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Una grande raccolta di opere del Realismo Socialista presto in mostra al castello di Bardi, in provincia di Parma. Quando l’arte volle glorificare il lavoratore

“Era il 1995. Avevo aperto l’azienda a Praga da un paio d’anni e da qualche tempo mi interessavo all’acquisto di oggetti d’arte e d’antiquariato: ho iniziato con le cartoline e le cornici, poi sono arrivate le tele”. È nei robivecchi di una Praga ancora sfinita da decenni di comunismo che comincia la storia della collezione Ferrarini-Nicoli: nello scantinato di un antik sulla via Korunní. Racconta Vittorio Ferrarini: “Un giorno, come mi succedeva spesso allora, ero a caccia d’oggetti d’arte da acquistare. La mia ricerca attenta mi ha portato dritto nel sottoscala di un antiquario che, malvolentieri, e quasi con disprezzo, mi ha spolverato davanti agli occhi una grande tela del 1937: un’opera firmata del pittore Josef Štolovský che raffigurava l’interno di una fonderia. Non avevo mai visto qualcosa del genere, fu come un’illuminazione”. Il quadro di Štolovský è uno squarcio nel ventre infiammato di una fabbrica cecoslovacca: gli operai come ombre indaffarate stanno intorno, di fronte alle macchine e ai forni che emergono dal nero di fondo. La pittura è incandescente come i materiali in fusione. È quest’immagine magmatica, di industria pesante, che inaugura la collezione Ferrarini-Nicoli, un insieme unico di opere d’arte che, ventun anni dopo, conta 150 dipinti, 40 sculture e 50 manifesti. Il tema è unico: il lavoro. Dalla fabbrica ai campi, passando per le miniere, tutti gli artisti testimoniano della durezza e della nobiltà di questa attività umana. Diverse opere di questa collezione sono state dipinte durante il cosiddetto “Realismo Socialista”, tra il 1948 e il 1958, ma che artisticamente durò fino alla fine degli anni ‘70. Un periodo doloroso per la Cecoslovacchia: quello del regime comunista al potere. Decenni in cui l’arte è vassalla dell’ideologia di Stato e la cui ispirazione per i soggetti e il loro trattamento viene direttamente dall’Unione Sovietica. E sovietico è il grigiore grave e vaporoso che avvolge certe infrastrutture e fabbriche raffigurate in queste tele: si pensi al Cementificio di August Bedřich Tkaczyk del 1950 o alla Costruzione dello stadio di Praga di Adolf A. Zahel del 1954. Giovanni Sciola, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga, spiega che in questo periodo “secondo i dettami del marxismo, l’arte doveva essere accessibile alle masse ed avere una concreta utilità sociale. La funzione principale: avvicinare l’espressione artistica alla cultura delle classi proletarie e celebrare il progresso socialista”.

Tutto doveva passare per una celebrazione del lavoratore: l’operaio, il contadino, il minatore, sono tutti gli archetipi, “operai” utili a rappresentare una società nuova, sovietizzata e efficiente. La collezione Ferrarini-Nicoli ha permesso che un buon numero di queste opere non andassero disperse. Ricorda Vittorio Ferrarini: “Moltissime opere di questo genere, quadri, sculture, manifesti, furono distrutti dalla popolazione dopo la caduta del muro di Berlino e il conseguente abbandono dei russi dal territorio cecoslovacco. Fu una reazione naturale come a volere cancellare un lungo, triste periodo della loro vita. Anni di regime e dittatura. Chi era in Cecoslovacchia in quegli anni, tra il 1989 e il 1990, mi disse che non era difficile trovare, gettati per strada, quadri e sculture distrutte”.

Anche per questo motivo il collezionista non nasconde la fierezza di fronte alle opere riportate alla luce nel corso degli anni. Consapevole di avere preservato uno spaccato di storia contemporanea cecoslovacca, Ferrarini resta lucido sulla dolorosa realtà storica che ha prodotto quest’arte, “forse ancora troppo dolorosa e vicina per chi l’ha vissuta personalmente”. Come Oldřich Lomecký, sindaco della municipalità di Praga 1, che alla parola arte preferisce l’espressione “perversione artistica” e ricorda come in patria l’arte del Realismo Socialista veniva apostrofata con disprezzo “sorela” o “socrel”, dalle iniziali delle parole ceche socialistický realismus. Dietro l’utopia di queste opere si cela una realtà ben diversa: fatta di privazioni e mancanza di libertà. Tuttavia lo stesso Lomecký riconosce il merito di questa importante collezione: essere memoria storica, monito piuttosto, perché questo periodo della storia contemporanea cecoslovacca non si ripeta una seconda volta.

Considerazioni politiche a parte, restano quadri e sculture che, è bene ricordarlo, non datano tutte del periodo comunista e parlano in primo luogo del duro lavoro dell’uomo nelle campagne e nelle città industrializzate. Nelle cave di pietra di Jaromír Schoř i personaggi sembrano intagliati nella materia che lavorano: i loro corpi sono linee spezzate che li identificano al materiale di estrazione che spostano a fatica. C’è l’impressionante Fonditore del 1922 di Jan Václavík, dove il lavoratore è un concentrato di linee di forza che tendono macchie di colore vivo. Josef Štolovský, con le sue fonderie e i suoi operai impegnati nelle fusioni, svela le budella bollenti dell’industria pesante. In più, c’è una schiera di altri artisti che hanno preferito esplorare il lavoro agricolo: tra questi Václav Trefil, Vojtěch Hynek Popelka oppure l’unica pittrice donna della collezione, Alena Čermáková. Se il lavoro agreste è già dal XIX secolo un soggetto esplorato da diversi artisti prestigiosi, basti pensare a diverse tavole firmate da Gustave Courbet, questa tematica è legata a filo doppio anche con la biografia di Vittorio Ferrarini, che dall’inizio ha cercato e acquistato “quasi ossessivamente” opere raffiguranti il lavoro. “Io ho sempre dipinto. E sempre dipinto paesaggi contadini. Dipinto la terra. I miei genitori erano contadini e fino al diploma ho lavorato nei campi. Ho condiviso con loro questo duro lavoro. Questa cosa mi deve essere rimasta attaccata addosso, per questo ho voluto collezionare queste opere”.

Certo è che quest’arte, e questa collezione, hanno superato con gli anni gli orizzonti di una ricerca personale per imporsi come riferimento per questo tipo di espressione artistica cecoslovacca. Sempre il collezionista parmigiano spiega: “In questi ultimi anni si è notata una significativa rivalutazione di queste opere e degli autori sia dal punto pittorico che storico. Infatti dagli inizi del 2000 si sono tenute mostre a Praga e in Italia a conferma del crescente interesse che ha suscitato questo tipo di pittura. La prima nel 2002 al Teatro Rudolfinum di Praga. La mostra era intitolata “Realismo Socialista Cecoslovacco”. Nel 2012 a Udine a Villa Manin nuovamente con il titolo “Realismo Socialista Cecoslovacco”. Nel 2015 a Mantova nella Casa del Mantegna “Il Realismo socialista” di un unico autore, Jaromír Schoř, dove erano presenti cinque opere della nostra collezione date in prestito”. Ma l’ultimo progetto in ordine di tempo è ancora più ambizioso: “Una esposizione permanente al castello di Bardi in provincia di Parma che aprirà a fine marzo, inizio aprile 2017. L’installazione prevede 60 quadri e 16 statue in un luogo che accoglie quasi trentamila visitatori all’anno”. Il luogo, ripensando alle parole di Ferrarini, ha una sintonia profonda con la collezione che vi sarà esposta. I campi tutt’intorno, la terra agricola, sono il luogo simbolo del duro lavoro dell’uomo, il motivo unico e profondo dell’intera collezione Ferrarini-Nicoli.

di Edoardo Malvenuti