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Una nuova tournée ripropone in Europa e America le canzoni simbolo del cantautore di Ostrava

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Chissà se lo immaginava, dove sarebbe arrivato, quando faceva il carpentiere nei piccoli paesini moravi. Chissà cosa pensava, quando schedava libri di storia nella biblioteca municipale di Ostrava. Chissà se da ragazzo ribelle e “irregolare”, amante del buon vino e dell’ottima birra, ascoltava anche lui “Chiudi la porta, fratellino!”, (“Bratříčku, zavírej vrátka”), vero inno della primavera del ‘68 cantato dall’immortale Karel Kryl. No, non poteva saperlo Jaromír Nohavica, che il destino beffardo lo aspettava sulle piazze di Praga, Brno, Ostrava e Olomouc. Non poteva intuire che sarebbe diventato proprio lui il cantante simbolo di un’altra rivoluzione, quella dell’89, quella che bruciava bandiere rosse e manifesti del partito comunista. Ma lo faceva morbidamente, nel velluto, appunto.

Se le canzoni dell’espatriato Karel Kryl furono l’icona un po’ rabbiosa e sicuramente triste della Cecoslovacchia oppressa dell’ultimo ventennio (‘68-‘88) di regime, le sue, quelle di Nohavica, sarebbero invece assurte a simbolo della “sametová revoluce”. Canzoni-poesie sgorgate dal cuore, canzoni senza limiti, insieme fresche e un po’ malinconiche, metà Jacques Brel e metà Leonard Cohen e, perché no, con un pizzico del nostro Fabrizio De André.

Il successo, possiamo dirlo, è arrivato tardi per il baffuto Jarek. Nella Cecoslovacchia di Husák non c’è posto per la sua creatività, per il suo umorismo un po’ scomodo, per la sua ironia tagliente che non confligge apertamente con il regime, ma lo uccide con il ridicolo, con un’amara risata fra amici.

Così, fra una canzone e l’altra, Jarek vivacchia fra un lavoretto e l’altro, campa nell’amatissima Ostrava insieme alla moglie e due figli. Certo compone, scrive, ma niente di particolare. Le sue musiche dal timbro intimista restano limitate all’ambito underground, anche se Nohavica è bravo, ci sa fare con la penna e ancor più con la chitarra, è un classico “poeta in musica”.

Il debutto si chiama “Cesty”, Strade, album inciso quasi alla macchia nell’85, ma fa già capire quali saranno i temi del nostro: amore, amicizia, pacifismo, fratellanza, insieme a una malinconia del vivere sottesa che lo accompagnerà in tutto il suo percorso di artista. Forse, la svolta autentica arriva inattesa nell’88: le maglie della censura si sono allentate, anche a Praga arriva l’odore di perestrojka gorbacioviana, il suo album “Darmoděj” (Senza scopo) guadagna una certa risonanza e vende tutte le copie disponibili.

I suoi testi originali, con frequenti richiami al folklore e alla letteratura, le sue musiche che uniscono tradizione slava e melodie francesi, il suo timbro morbido e avvolgente lo avvicinano subito agli chansonniers. Non per niente, traduce e interpreta in ceco “Il disertore”, canzone simbolo del pacifismo, scritta proprio da Boris Vian e resa celebre tra gli altri da Joan Baez.

Adesso, è tutto diverso : si ascolta Nohavica nelle vinárny, ha successo nelle birrerie, fra gli studenti universitari che seguono la revoluce. Un buon momento, per il cantante moravo: collabora persino con Kryl l’espatriato, l’anarchico, seppur mantenendo posizioni politiche più moderate.

Proprio a Kryl il “maledetto” dedica la canzone “Přítel”, Amico, e di lui si parla nell’album “Osmá barva duhy”, (Gli otto colori dell’arcobaleno) uscito nell’anno magico 1989. È il primo disco di vero successo, e allarga ancor di più la fama di Nohavica oltre i confini nazionali.

Non solo politica: c’è anche molto sentimento nei suoi testi, c’è la Cecoslovacchia di tutti i giorni, gli amori perduti e le “strade”, appunto, della speranza che la storia sembrava aver negato al popolo ceco. Se i tre anni fra l’89 e il ‘92 sembrano quelli più entusiasmanti per l’Est Europa che riconquista la libertà, per Nohavica paradossalmente sono anche i più controversi. Certo, una discreta fama è arrivata, non è più “il ragazzo di Ostrava” che strimpellava nei locali da 50 persone, è diventato a modo suo simbolo e icona del momento storico che il paese sta vivendo.

Inizia a scrivere testi anche per il teatro, traduce autori russi, traduce in ceco pure i libretti di Mozart realizzati da Da Ponte, è insomma un intellettuale della nuova onda che cambia velocemente il panorama della Mitteleuropa.

Insieme ai successi pubblici, arrivano però anche i dolori privati: la dura lotta contro l’alcolismo, i dissapori familiari, la solitudine. Tutti temi che vengono fuori in “Mikymauzoleum”, disco che vede la luce nel ‘93.

Il paese cambia pelle, molti esuli rientrano a Praga, i suoi concerti ormai riempiono le piazze , ma intanto in un empito di libertà e trasparenza si aprono anche gli archivi del vecchio partito comunista e della polizia Stb. E proprio dagli archivi Stb spunta fuori il nome di Nohavica: negli anni Settanta, Jarek avrebbe collaborato con la polizia segreta. Il cantante non smentisce, si limita a precisare di non aver mai fatto il delatore, né di aver fatto condannare nessuno. Ricorda, ancora, che la pratica di “informatore” era allora piuttosto diffusa fra artisti e intellettuali.

Le accuse rivoltegli appannano un po’ il mito, ma non per questo interrompono l’attività: anzi, nel 2002 è proprio lui il protagonista di “Rok ďábla”, L’anno del diavolo, film-documentario sulla caduta del comunismo a Praga, film che fa molto parlare anche in Occidente. Il cantante è un’icona, controversa, contestata, ma pur sempre un’icona. A differenza di Kryl, che per le sue canzoni era dovuto emigrare in Germania, Nohavica rimane legato alla sua città natale, rifiuta le offerte di trasferirsi a Praga, ritrova nelle origini e nei “favolosi anni da cani” il repertorio per canzoni sempre più accurate e limate anche a livello acustico. Dopo “Il mio cuore triste” (Moje smutné srdce), vengono fuori due album per bambini, ispirati alle favole dei fratelli Grimm, ma anche componimenti più impegnati. Non si nega, Jaromír, non nasconde debolezze umane e fragilità che lo hanno accompagnato, riesce grazie all’umorismo e al tono sempre lirico a farsi perdonare errori e cadute di stile. “Babylon”, “Ikarus”, “Tak mě tu máš” (quest’ultimo uscito nel 2012) sono gli ultimi album che il cantante di Ostrava ha prodotto, senza contare i dischi live. Adesso ha ammiratori in tutta Europa e in America. Non solo emigrati cechi.

Nel 2011, onore tutto italiano, riceve a Sanremo il “Premio Tenco” come migliore artista straniero. Un riconoscimento prestigioso quanto inatteso, che si unisce al premio “Anděl” ritirato lo stesso anno a Praga. Le sue canzoni e ballate folk si ascoltano un po’ dappertutto, la bandiera del mito e dell’ironia lo rende internazionale. Il carpentiere un po’ ubriacone, il bibliotecario strambo ha vinto in fondo la sua battaglia, ha trovato alla fine la sua strada. La tournée italiana di questa primavera toccherà sei città per otto date complessive.

di Ernesto Massimetti