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Dai film biografici del leggendario Otakar Vávra su Jan Hus e Jan Žižka fino al capolavoro Marketa Lazarová, il film storico rappresenta uno dei generi cinematografici “cechi”

Con l’anniversario della morte di Jan Hus dello scorso anno, i numerosi eventi programmati per omaggiare il teologo e riformatore boemo, inclusa una fiction televisiva, hanno riacceso l’interesse del popolo ceco per un genere cinematografico, quello del film storico, un tempo tra i più popolari – e spesso utilizzato per fini politici dal vecchio regime.

In passato, i film cecoslovacchi ambientati prima del 1918, l’anno dell’indipendenza dall’Impero Asburgico, avevano principalmente lo scopo di fondare miti volti a legittimare l’identità nazionale. Non è dunque un caso che il primo film finanziato dal governo fu Svatý Václav (San Venceslao) nel 1929, di Jan Stanislav Kolár, un’opera che segnò il millesimo anniversario della morte del Santo Patrono della nazione. Anche il primo lungometraggio ceco a colori, Jan Roháč z Dube (1947) di Vladimír Borský, basato sull’opera teatrale di Alois Jirásek, raccontava la storia di uno dei leader radicali del movimento Hussita. Non stupisce affatto, infine, che l’autore più legato al genere sia proprio l’uomo considerato “il padre del cinema cecoslovacco”: Otakar Vávra.

Il regista di Hradec Králové, nato il 28 febbraio 1911 e scomparso nel 2011 all’età di cent’anni, è rimasto non solo una figura chiave nello sviluppo del cinema del paese, ma anche una figura piuttosto esposta alle polemiche per la sua “disponibilità” a lavorare, chiunque fosse al potere. La carriera di Vávra ha attraversato sei decenni ed è uno dei pochi artisti che poté produrre le sue opere sia sotto il Protettorato nazista che durante gli anni più severi dello Stalinismo. Eppure è stata l’enfasi sulla letteratura classica e la storia della sua terra che gli ha permesso di sopravvivere in queste epoche senza troppo turbare i censori di turno. Vávra è riuscito a ritrarre molti temi ed eventi significativi della storia cecoslovacca, raccontando tanto epoche lontane quanto vicine, dalle riforme religiose sino al Patto (tradimento) di Monaco. I maggiori successi sono arrivati negli anni ‘50, con la sua “trilogia Hussita”: Jan Hus (1954), Jan Žižka (1955), Proti všem (1957, in italiano “Contro ogni speranza”). Per questi film poteva usufruire di un budget enorme per l’epoca, nonché di uno speciale aiuto da parte dello Stato: anche milizie dell’esercito furono messe a sua disposizione. Per soddisfare le aspettative del regime il regista presentava la rivoluzione dell’eroe Hus come un precursore delle rivoluzioni del Novecento. Dalla prospettiva comunista, la rivoluzione Hussita era principalmente una rivoluzione sociale, e di conseguenza il Partito non poteva che esserne il suo discendente. Lo diceva, chiaro e tondo, il leggendario musicologo, storico e politico Zdeněk Nejedlý: “Oggi Hus sarebbe il capo di un partito politico. Ed il suo partito si avvicinerebbe molto a noi comunisti”.

Ma se la trilogia monumentale può essere considerata come un prodotto “omologato” dal regime, sarebbe totalmente improbabile un giudizio simile sul film da tanti considerato il suo vero capolavoro: Kladivo na čarodějnice (1969: Una vergine per l’inquisitore). Un racconto agghiacciante di stregoneria nel Seicento, chiaramente un riflesso della realtà politica del periodo della Normalizzazione, dopo l’invasione della Cecoslovacchia, guidata ed ordinata dai sovietici, nel 1968. La metafora della caccia alle streghe rispecchiava quello che accadeva e poteva accadere nel presente: fare un film ambientato nel passato era l’unico modo per parlare del presente senza offendere la censura. Oltre ai suoi capolavori il cineasta boemo va ricordato anche come uno dei fondatori della Famu, la leggendaria scuola cinematografica di Praga dove fu l’insegnante di futuri registi della Nová Vlna come Věra Chytilová e Jiří Menzel.

Ma per quelli che trovano lo stile di Vávra troppo “sovietico”, gli anni Sessanta rappresentano il periodo in cui si vedevano nuovi atteggiamenti verso la storia. Se durante lo Stalinismo il film storico era diventato principalmente un veicolo per la propaganda politica, o per creare o stabilire miti, in questo decennio registi come František Vláčil e Oldřich Daněk riuscirono ad interpretare il genere in altre maniere. Gli elementi visivi barocchi ed ipnotici del cinema di Vláčil, un genio troppo spesso ignorato e sottovalutato nei paesi occidentali è il rimedio per quelli che non apprezzano il realismo sociale dei film storici degli anni ‘50. Il primo nel genere del regista slesiano, “La trappola del diavolo” (Ďáblova past, 1961), è quello più tradizionale, con una storia che ha luogo nel Settecento durante l’Inquisizione. Nonostante possa sembrare un’opera più convenzionale rispetto e quelle successive, lo spettatore viene colpito dal modo in cui il regista si sforza per ottenere l’autenticità nella descrizione dell’epoca. Vláčil ha sempre sostenuto che nei film storici prodotti fino a quel momento si guardavano attori in costume senza entrare veramente in un determinato mondo e periodo. Ma se l’artista aveva già raggiunto un notevole traguardo con Ďáblova past, ha poi perfezionato la ricostruzione del medioevo nel suo magnus opus “Marketa Lazarová” (1967), ora considerato pari ai film “Il Settimo Sigillo” di Ingmar Bergman o “Andrej Rublev” di Andrej Tarkovskij, i più grandi film sull’epoca.

L’adattamento del romanzo di Vladislav Vančura (scritto nel 1931) che racconta la storia della figlia di un padrone feudale (interpretata dalla bellissima slovacca Magda Vášáryová) rapita da due cavalieri, spicca per l’abilità del regista di adattare le parole erudite di Vančura per lo schermo, e per il modo in cui esamina gli elementi contraddittori del medioevo: il cristianesimo, i riti pagani, la centralità del feudo, la nascita di un potere egemone. Marketa Lazarová è stato votato il miglior film cecoslovacco da critici cechi e slovacchi in un sondaggio del 1999, ma nonostante la grande stima che il popolo ceco ha sempre avuto nei confronti di Vláčil, è diventato famoso nei paesi occidentali solo dopo la sua morte nel ‘99, grazie anche a retrospettive dedicate alle sue opere in vari festival internazionali e alla disponibilità dei film su Dvd. Purtroppo, il regista ebbe la stessa sorte di molti suoi contemporanei entrando spesso in collisione con le autorità comuniste in seguito alla occupazione del ‘68, non potendo più realizzare i film che aveva in mente. Dal suo periodo d’oro negli anni ‘60, oltre a Marketa Lazarová segnaliamo “Údolí včel” (1967) per la poesia visiva tipica dell’autore, una pellicola ancora una volta ambientata nel medioevo che narra l’infanzia di Ondřej, un ragazzo che cresce in un ordine religioso severo sotto la guida di un Cavaliere teutonico.

Dal 1989, con l’aumento dei costi di produzione e la mancanza dei sussidi statali, c’è stato un calo di film epici con temi storici in Repubblica Ceca, al contrario dei paesi vicini come Polonia e Ungheria dove restano fra i film più amati dal pubblico. Detto ciò, si tratta comunque di un genere che rimane vivo, basta ricordarsi di “Bathory”del regista slovacco Juraj Jakubisko nel 2008, il film più costoso mai realizzato nei territori che furono la Cecoslovacchia. Nel 2015 sono comunque state tante le iniziative in Repubblica Ceca per onorare la morte di Jan Hus, fra mostre, proiezioni dei film classici di Vávra al cinema Pon Repo di Praga (durante lo scorso maggio) e i numerosi documentari in televisione. La ciliegina sulla torta è una nuova miniserie prodotta per la televisione ceca con l’attore Matěj Hádek nei panni di Hus. Da tempo girano voci anche di un nuovo film dedicato a Jan Žižka, il generale boemo leader hussita. I segnali non mentono; il film storico ceco ha un futuro ancora tutto da scrivere.

di Lawrence Formisano