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La Repubblica Ceca ha un fiore all’occhiello in campo sanitario: possiede il miglior centro ospedaliero in Europa capace di far fronte a ogni tipo di epidemia e persino al rischio di attacchi terroristici portati con armi batteriologiche come Sars o antrace. Eppure oggi, davanti ai segnali di recessione economica, il governo ceco sta valutando la chiusura di questo vanto, sotto la bandiera bianca dell’austerity.

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Il centro di biodifesa di Těchonín (Foto: army.cz © Jan Kouba, Ministry of defence, Czech Republic) 

Ci troviamo tra le basse montagne dei Sudeti centrali, regione di Pardubice, pochi chilometri dal confine con la Slesia polacca, nel comune di Těchonín. Il Centro di Difesa Biologica – Centrum biologické ochrany, avveniristico centro sanitario e di ricerca militare nato nel 2007, alle dirette dipendenze del Ministero della Difesa – si trova a poca distanza da questo villaggio di 700 abitanti.  La scelta del sito non è casuale.

Těchonín raccoglie l’eredità di un oscuro passato, quando la Guerra Fredda condizionava l’acume della scienza. Una pubblicazione della Harvard University Press,  “The Soviet Biological Weapons Program”, dopo l’apertura degli archivi ha tirato fuori parecchi scheletri dall’armadio. Si viene così a sapere che nel 1965 la Cecoslovacchia lanciò un piano segreto sulla ricerca e la produzione di armi chimiche e batteriologiche. Proprio in questo ambito, nei primi anni ’70, realizzò, in questo sperduto paesino di montagna, un istituto speciale al servizio del Trattato di Varsavia, una base militare in piena regola.

Un perfetto scenario da spy story.  I laboratori di Těchonín resero la Cecoslovacchia il più importante partner di Mosca in questo settore: l’unica base di ricerca, fuori dell’Unione Sovietica, in cui i russi venivano a lavorare, e l’unico a cui proibivano l’accesso agli altri membri dell’Europa socialista. La collaborazione Praga-Mosca era tanto stretta quanto “top secret”. Fin da subito il compito di Těchonín fu di specializzarsi nella difesa della salute umana in caso di attacchi con armi non convenzionali. Divenne dunque una cassaforte, una risorsa contro le armi chimiche allora conosciute. Il centro aveva una riserva di un numero incredibile di agenti biologici, potremmo chiamarla la “banca virus” più grande del mondo comunista.

Caduto il blocco dell’Est, il mondo nuovo volle fare piazza pulita dei resti ancora fumanti dell’Impero sovietico. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ordinò nel 1992 alla Cecoslovacchia di distruggere tutto il materiale ad alto rischio del centro. Una mossa forse avventata, considerata la natura difensiva delle ricerche. Tuttavia la preparazione decennale di specialisti unici nel loro genere, fortunatamente, non poteva essere cancellata. Così che dodici anni fa, dopo l’11 Settembre, sull’onda della paura al terrorismo internazionale, si decide di ripartire con un nuovo progetto, e un futuristico ospedale ad affiancare l’attività scientifica. L’operazione è in grande stile, una volontà della piccola nazione mitteleuropea di riaffermare le proprie eccellenze. Il nuovo centro di biodifesa ha un prezzo non da poco: i lavori, partiti nel 2001 e completati nel 2007, vengono a costare 1,74 miliardi di corone ceche, qualcosa meno di 70 milioni di euro, ed un costo di funzionamento annuale intorno ai 120 milioni di corone, circa 4 milioni e 800 mila euro. Proprio i 120 milioni oggi ora sotto accusa e giudicati dal governo insostenibili.

Il futuristico ospedale, cinque dipartimenti per circa 50 dipendenti, funziona su tre livelli: isolamento, formazione, ricerca. Il primo livello viene utilizzato per la messa in quarantena di soggetti a rischio: ovvero, ad oggi, i militari in ritorno da missioni speciali, ad esempio operazioni militari in zone a rischio epidemico. Solitamente stazionano 24 ore prima di essere rilasciati. Nei quattro anni di servizio attivo il centro ha ospitato un solo civile, un cooperante di rientro in Repubblica Ceca dopo un lungo soggiorno in Congo, in una zona ad alta incidenza di virus ebola, pericolosissimo per la sua mortalità pressoché totale e la forte trasmissibilità.  La quarantena in questo caso è durata due settimane: non c’era contagio. Il paziente di passaggio in quarantena vive separato da tre pareti di vetro, in una stanza a pressione costante, visitato da dottori in pesanti scafandri che dettano le analisi ad un collega collegato via computer in una stanza attigua, circondati da strumentazioni strettamente monouso. Come in ogni struttura catalogata nel mondo scientifico “Biosafety Level-4”, ovvero il più avanzato grado di sicurezza che raccoglie meno di cinquanta strutture in tutto il mondo, anche il ciclo dei rifiuti è interno all’ospedale: è azzerata ogni possibilità di contatto di materiali pericolosi con il mondo esterno. L’attività medica è piuttosto ristretta, non sono previste operazioni chirurgiche; l’autopsia è invece ovviamente considerata.

La ricerca e la formazione sono settori più movimentati. Nel fantascientifico contesto di microscopi nucleari, tra camici che si infilano nei rumori secchi delle porte depressurizzate, il centro ospita medici e ricercatori, civili e militari, e porta avanti collaborazioni con studenti di medicina, in special modo di epidemiologia.

Fin qui la descrizione di una vera eccellenza per un piccolo stato come la Repubblica Ceca, ma un vanto forse troppo grande per le sue tasche.

Così in piena crisi economica – che la Repubblica Ceca sta fronteggiando comunque meglio di altri stati europei – l’orgoglio scientifico di Těchonín si trova a rischio chiusura. Una prospettiva più che reale, visto che già il Governo si è espresso per la dismissione del sito lo scorso 7 febbraio 2013: non ci sono soldi, l’amara sentenza. I 120 milioni di corone all’anno meglio destinarli ad altri scopi, è stato detto . Decisione non priva di critiche, incongruenze, e forse non del tutto definitiva.

Si potrebbe argomentare che un attacco bioterroristico contro la Repubblica Ceca è ormai da fantapolitica, ma allo stesso tempo è facile ricordare l’isteria collettiva per infezioni nuove e pericolose cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio, i cui nomi sono ancora un fastidioso fischio negli orecchi: Sars, i virus influenzali H1N1 dell’influenza aviaria o suina, e così via. Gli interrogativi si moltiplicano, basta soffermarsi sulla decisione del governo di buttar via un gioiello da quasi due miliardi di corone.

Esperti del settore fanno notare come la Repubblica Ceca, nonostante il centro BL-4 di Těchonín, non fa stranamente parte dell’iniziativa europea Erinha (European Research Institute in Highly Pathogenic Agents), iniziativa finanziata dalla Commissione Europea, che potrebbe coinvolgere e supportare le attività del centro.

Su questi interrogativi si basano le speranze dei tanti, dal mondo scientifico al militare, che vorrebbero mantenere aperta la struttura. Sebbene il Governo, come detto, abbia già reso nota la sua decisione, rimane nell’aria una ipotetica co-gestione, ovvero lo Stato passerebbe il 50% dei fondi attuali, mentre il resto sarebbe da trovare autonomamente dai dirigenti del centro di biodifesa. Ipotesi sulla quale Praga ha comunque paventato scarso sostegno. Il portavoce del Ministero della Difesa, Jan Peišek, ha anche riferito di diversi tentativi di vendere il centro, finora senza risultati, in paesi della Nato (il Regno Unito, ad esempio) o esterni (come la Serbia). Staremo a vedere. Per molti, comunque, la smania di raccattar denaro per far fronte agli impegni finanziari sta giocando un brutto scherzo all’esecutivo in carica.

di Giuseppe Picheca